Lunedì 8 Jane ricevette una lettera da Edward, datata sabato, in cui egli diceva che era a Livorno e stava aspettando Shelley che si trovava a Pisa. Il ritorno di Shelley era certo, “ma”, egli continuava, «se Shelley non tornerà entro lunedì, verrò a casa con una felucca, potresti aspettarti il mio arrivo al più tardi martedì.” Questo accadeva lunedì, il fatale lunedì, ma da noi ci fu tempesta per tutto il giorno e non immaginavo assolutamente che si fossero messi in mare. A mezzanotte ci fu un temporale, il martedì piovve per tutto il giorno e tornò la calma. Il cielo pianse sulle loro tombe. Il mercoledì il vento tirava favorevole da Livorno e alla sera diverse felucche arrivarono da là. Una portò la notizia che erano partiti lunedì, ma non vi credemmo. Il giovedì fu un altro giorno di vento favorevole e quando scoccò la mezzanotte e non scorgemmo le alte vele della piccola imbarcazione doppiare il promontorio davanti a noi cominciammo non a temere la verità ma ad illuderci su qualche impedimento e su qualche spiacevole notizia circa il loro ritardo. Jane divenne così ansiosa da voler partire in barca per Livorno il giorno seguente alfine di appurare che cosa fosse successo. Venerdì ci furono una mareggiata e vento contrario. Jane, comunque, decise di andare a Livorno (da quel momento nessuna barca poté salpare) e si affrettò a prepararsi. Io desideravo che aspettasse le lettere, dato che il venerdì era il giorno dell’arrivo della posta – ma lei non volle aspettare. Il mare la trattenne, le onde erano così grosse che nessuna imbarcazione si azzardò ad uscire. A mezzogiorno arrivarono le nostre lettere. Ce n’era una di Hunt per Shelley; essa diceva: «Per favore scrivi per dirci come sei tornato a casa, poiché si dice che c’è stato maltempo dopo la tua partenza di lunedì e siamo ansiosi.” Il foglio mi cadde dalle mani. Tremai tutta. Jane lo lesse: «Allora è tutto finito!» disse. «No, mia cara Jane,» urlai «non è tutto finito, ma quest’attesa è terribile. Vieni con me, andremo a Livorno con una carrozza per essere veloci e conoscere il nostro destino.» Andammo a Lerici, la disperazione era nei nostri cuori; là sollevarono i nostri animi riferendoci di non aver avuto notizia di nessun incidente perché loro avrebbero dovuto esserne informati. Ma ancora la nostra paura era viva e senza fare sosta partimmo per Pisa. Doveva essere stato spaventoso vederci, due povere creature pazze e atterrite andare (come Mathilda) verso il mare per sapere se dovevamo essere per sempre condannate all’infelicità. Sapevo che Hunt si trovava a Pisa, ospite di Lord Byron, ma pensavo che L B. fosse a Livorno. Decisi che dovevamo dirigerci a Casa Lanfranchi e ripetere la terribile domanda di Hunt: «Sapete qualcosa di Shelley?» Arrivando a Pisa, l’idea di vedere Hunt per la prima volta dopo quattro anni in tali circostanze, e porgli una simile domanda era così terrificante per me che lottai terribilmente per non avere le convulsioni. Bussammo alla porta e qualcuno chiese «Chi è?». Era la cameriera della Guiccioli. Lord Byron era a Pisa. Hunt era a letto, così dovevo vedere Lord Byron invece di lui. Questo fu un grande sollievo per me; barcollando salii le scale. La Guiccioli mi venne incontro dicendo, mentre io non riuscivo a parlare, «Dov’è? Sapete niente di Shelley?» Non sapevano niente. Era partito da Pisa la domenica, il lunedì era salpato, c’era stato maltempo il lunedì pomeriggio, non sapevano altro. Sia Lord Byron che la signora allora mi dissero che quella terribile sera sembravo più un fantasma che una donna. Una luce sembrava emanare dai miei lineamenti, il mio viso era pallidissimo, sembravo di marmo. Ahimè. Mi ero appena alzata da un letto di dolore per questo viaggio. Avevo viaggiato tutto il giorno. Era mezzanotte: rifiutandoci di riposare, procedemmo alla volta di Livorno, non disperate, no, perché allora avremmo dovuto morire; ma con quel poco di speranza che ci permetteva di mantenere un’agitazione nei nostri animi che era tutta la vita. Erano circa le due del mattino quando arrivammo. Ci portarono nella locanda sbagliata, né Trelawny né il capitano Roberts erano là e neppure sapevamo esattamente dove fossero, così fummo costrette ad aspettare fino all’alba. Ci buttammo vestite sui letti e dormimmo un po’, ma alle 6 andammo in una o due locande per chiedere di uno e dell’altro. Trovammo Roberts al Globo. Ci venne incontro con una espressione che diceva che il peggio era vero, e qui fummo a conoscenza di tutto ciò che era accaduto durante la settimana in cui erano lontani da noi e in quali circostanze erano ripartiti. Shelley aveva trascorso la maggior parte del tempo a Pisa, sistemando le faccende degli Hunts e tirando le corde della mente di Lord Byron a proposito della rivista. Era stato difficile, ma alla fine era riuscito a soddisfare entrambi gli obiettivi. La signora Mason disse di averlo visto migliorato di salute e di animo come non lo aveva mai visto; quando si congedò da lei, domenica 7 luglio, il suo viso era bruciato dal sole e il suo cuore leggero poiché era riuscito a sistemare gli Hunts discretamente. Edward era rimasto a Livorno. Lunedì 8 luglio trascorsero la mattinata a comprare molte cose, viveri ecc. per la nostra solitudine. C’era stato un temporale prima, ma verso mezzogiorno il tempo era bello e il vento spirava verso Lerici. Erano impazienti di partire. Roberts disse: «Rimanete sino a domani per vedere se il tempo si stabilizza» e Shelley sarebbe rimasto, ma Edward aveva una gran ansia di raggiungere casa. Dissero che sarebbero arrivati in sette ore con quel vento favorevole, così salparono! Shelley era preso da uno di quegli attacchi stravaganti di spiriti buoni in cui lei lo ha visto qualche volta. Roberts andò sino alla fine del molo e rimase ad osservarli finché non scomparvero dalla sua vista: salparono all’una e andavano alla velocità di circa sette nodi. Circa alle tre, Roberts che si trovava ancora sul molo, vide una tromba d’aria provenire dal Golfo, o meglio ciò che gli italiani chiamano un temporale: ansioso di sapere come la barca avrebbe resistito alla tempesta, sali sulla torre e col cannocchiale li scorse a circa 10 miglia fuori Viareggio, stavano ritirando le seconde vele. «La foschia prodotta dalla tempesta» disse «li nascondeva alla mia vista e non li vidi più; quando la tempesta si calmò guardai di nuovo pensando di vederli tornare, ma non c’era nessuna imbarcazione in mare». Questo era tutto ciò che venimmo a sapere, tuttavia non disperammo, potevano essere stati spinti verso la Corsica e non conoscendo la costa essere andati Dio solo sa dove. Le notizie erano a favore di questa ipotesi. Fu anche detto che erano stati visti nel Golfo. Decidemmo di far ritorno velocemente. Mandammo un corriere di torre in torre lungo la costa per sapere se qualcosa era stato visto o trovato, e alle 9 del mattino lasciammo Livorno; ci fermammo solo per un momento a Pisa e procedemmo alla volta di Lerici. Quando a 2 miglia da Viareggio cavalcammo alla volta di quella città per sapere se qualcuno era a conoscenza di qualcosa, qui per la prima volta la nostra calamità ci colpì, una piccola imbarcazione e un barile per l’acqua erano stati trovati a cinque miglia. Loro avevano fatto costruire una piccolissima lancia con sottili tavole unite insieme da un ciabattino proprio per scendere a terra senza bagnarsi poiché la nostra barca pescava in acqua quattro piedi. La descrizione di quel ritrovamento corrispondeva, ma quella barca era molto ingombrante ed era probabile che essi l’avessero facilmente gettata a mare. Il barile era la cosa che più mi spaventava, ma si poteva ugualmente trovare una ragione. Devo dirle che Jane ed io ora non eravamo sole. Trelawny ci accompagnò nel nostro ritorno a casa. Proseguimmo il nostro viaggio e raggiungemmo il fiume Magra alle 10.30 di sera. Non sono in grado di descriverle ciò che provai in un primo momento quando guardammo il fiume; sentii l’acqua spruzzare sulle ruote della carrozza. Mi sentii soffocare: feci sforzi per respirare, pensai di avere le convulsioni e lottai violentemente perché Jane non se ne accorgesse. Guardando il fiume vidi le due grosse lanterne che bruciavano alla foce. Una voce dentro di me sembrava urlare forte che quel mare era la sua tomba. Dopo aver oltrepassato il fiume mi ripresi gradualmente. Arrivando a Lerici fummo obbligati ad attraversare la nostra piccola baia in barca: San Terenzo era illuminato per una festa. Che scena: il mare mugghiava, il vento di scirocco, le luci del paese verso cui remavamo, e i nostri cuori sconsolati, tutto veniva coperto da un sudario. Approdammo; non si sapeva nulla di loro. Questo accadeva sabato 13 luglio e in questo modo aspettammo sino a giovedì 20 luglio tra speranza e paura. Mandammo dei corrieri lungo la costa verso Genova e Viareggio: niente era stato trovato oltre alla lancetta; speravamo che ci portassero notizie. Per dirle tutta l’agonia che vivemmo durante quei dodici giorni dovrei farle immaginare un universo di dolore: ogni momento era intollerabile e sfociava in uno ancora peggiore. Anche la gente del paese aumentava il nostro dolore, essi sono come selvaggi, alle feste gli uomini e le donne e i bambini in gruppi diversi, i sessi sempre separati, trascorrono l’intera notte a ballare sulla spiaggia vicino alla nostra porta correndo avanti e indietro in mare urlando senza sosta e cantando il canto più detestabile del mondo. Poi lo scirocco soffiava continuamente e il mare gemeva un eterno canto funebre per loro. Giovedì 25 luglio Trelawny ci lasciò per andare a Livorno per vedere cosa doveva o poteva fare. Il venerdì stavo malissimo, ma quando venne sera dissi a Jane – «Se qualcosa fosse stato trovato sulla costa, Trelawny sarebbe tornato indietro a riferircelo. Non è tornato, così io spero.» Circa alle sette di sera egli fece ritorno: tutto era finito, tutto era chiaro ora; erano stati trovati, riversi sulla riva. Dunque, bisognava accettarlo. Cosa devo dire di più? Il giorno dopo tornammo a Pisa e siamo ancora qui. I giorni passano, uno dopo l’altro e noi viviamo così. Siamo tutti insieme, lasceremo l’Italia insieme. Jane deve proseguire per Londra, io, se non sarò costretta, per lettera, a mutare la mia opinione, rimarrò a Parigi. Così viviamo vedendo gli Hunts ogni tanto. Povero Hunt, ha sofferto terribilmente, come puoi immaginare. Lord Byron è molto gentile con me e viene spesso a farmi visita con la Guiccioli. Oggi, questo giorno, il sole splende nel cielo. Essi sono andati sulla costa deserta per compiere le ultime funzioni alle loro spoglie mortali. Hunt, Lord Byron e Trelavny. Le leggi sulla quarantena non ci permisero di rimuovere i loro corpi prima, ed ora ce lo permettono solo a condizione di cremarli. Ciò non mi dispiace, le sue spoglie andranno a Roma accanto al mio bambino dove un giorno anch’io li raggiungerò. Adonais non è l’elegia dedicata a Keats, ma a se stesso. In essa ci invita ad andare a Roma. Ho visto il luogo dove egli giace ora: i rami di pino indicano il luogo dove la sabbia lo copre. Non sarà sepolto là, è troppo vicino a Viareggio. Stanno per finire questa funzione spaventosa ed io vivo! Menzionerò ancora una circostanza. Come ho detto egli si congedò dalla signora Mason di buon umore. Lei mi disse «Non vidi mai nel suo sguardo e nel suo volto una felicità maggiore di quell’ultima volta». Il lunedì lui era smarrito, il lunedì notte ella sognò di essere da qualche parte, non sapeva dove, e lui pallidissimo e spaventosamente malinconico arrivò. Lei gli disse: «Sembri malato, sei stanco, siediti e mangia.» «No», egli rispose «non mangerò mai più; non ho un soldo.» «Sciocchezze,» ella disse, «questo non è un albergo, tu non devi pagare» «Forse», egli rispose, «È peggio per questo». Poi ella si svegliò e addormentandosi di nuovo sognò che il mio Percy era morto e si svegliò piangendo amaramente (così amaramente da sentirsi infelice e si disse – «Se il ragazzo dovesse morire non lo percepirei in questo modo.»). Era così colpita da questi sogni che ne parlò il giorno dopo alla sua cameriera dicendo che sperava che tutto andasse bene per noi. Questa è la mia storia, l’ultima storia che devo raccontare. Tutto ciò che poteva essere luminoso nella mia vita è ora precipitato: vivrò per migliorare me stessa, per avere cura di mio figlio e rendermi degna di raggiungerlo Presto inizierà il mio faticoso pellegrinaggio – ora riposo – ma presto devo lasciare l’Italia e allora ci sarà una fine a tutta la disperazione. Adieu, spero che lei stia bene e sia felice. Penso che mentre era a Pisa Shelley abbia ricevuto una lettera da parte sua, che però non ho mai visto, così, non sapendo dove spedirle questa, la mando a Peacock. La spedirò aperta, sarà felice di leggerla. Distinti saluti sempre fedelmente Mary WS. – Pisa. Probabilmente le scriverò nuovamente presto. Mi sono dimenticata una circostanza reale. Una barca da pesca li ha visti affondare. Erano circa le 4 del pomeriggio – videro il ragazzo sull’albero maestro quando venti contrari colpirono le vele; distolsero lo sguardo per un momento e quando la cercarono nuovamente con lo sguardo, la barca non c’era più. Questa è la loro storia ma si può pensare che questi uomini avrebbero potuto salvarli, almeno Edward che sapeva nuotare. Essi dissero di non essersi potuti avvicinare alla barca ma dopo tre quarti d’ora passarono nel punto in cui l’avevano vista – dichiararono che non vi era traccia di naufragio, ma Roberts salendo a bordo della loro barca trovò diversi elementi di alberatura che appartenevano alla barca di Shelley. Forse li avevano lasciati perire per prenderli. Trelawny pensa di poterla tirare su, poiché un altro pescatore è sicuro di aver visto il luogo dove la barca è affondata, vicino alla costa. Trelawny lo vuol fare forse per scoprire le cause del naufragio. A me poco importa.