Open-Air Museum
Il nuovo Parco Letterario dedicato a Percy B. Shelley è stato ideato in occasione del bicentenario dalla morte del poeta, avvenuta nel 1822. Il progetto ha l’obiettivo di unire idealmente – e non solo – due luoghi unici e iconici: Parco Shelley a San Terenzo e la cosiddetta “Pietraia”, ai piedi del Forte della Rocchetta.
Verso tratto dalla poesia Ode al vento di Ponente, scritta alla fine di ottobre del 1819 a Firenze, in un bosco vicino all’Arno, forse durante “una violenta tempesta di grandine e pioggia, accompagnata da quel magnifico tuonare e lampeggiare proprio delle regioni cisalpine” che Shelley tanto amava e che così descrive. E’ un’ode, un inno e una preghiera al vento d’autunno che sconvolge terra cielo e mare, trascinando foglie e semi, nuvole e onde, in un vortice inarrestabile. Shelley ha il cuore che sanguina per il troppo dolore del mondo –aveva appena scritto sul massacro di Peterloo- per i suicidi in famiglia e per la perdita dei figli piccoli; si rivolge al vento come a un Dio, chiamandolo “Destroyer and Preserver”, che distrugge e preserva, come Siva e Visnu: gli chiede di essere sollevato “come un’onda, come una foglia, una nuvola” per annientarsi nel vortice degli elementi, che traduce in un gioco di allitterazioni, assonanze e rime, nei 70 versi della poesia. Ma al tempo stesso sa che alla dissoluzione, nel ciclo delle stagioni, seguirà una rinascita, e allora prega quella forza cosmica di trasformarsi in lui “Sii tu, spirito fiero, il mio spirito, Sii tu me” per dargli la forza di essere, con la sua poesia, portatore di una profezia di rigenerazione anche per gli uomini
oh Spirito selvaggio, che soffi ovunque,
distruggi e conservi; ascolta, oh, ascolta!
Che tu sia il mio spirito, o Spirito feroce!
Sii me stesso Spirito impetuoso!
Guida i miei morti pensieri per tutto l’universo
come foglie appassite per darmi una nascita nuova!
E con l’incanto di questi miei versi disperdi,
come le faville e le ceneri da un focolare
non ancora spento, le mie parole fra gi uomini!
E per la terra che dorme, attraverso il mio labbro,
sii la tromba di una profezia! Oh, Vento,
se viene l’Inverno, potrà la Primavera esser lontana?
Verso tratto dalla poesia Ode al vento di Ponente. Dopo la descrizione dello sconvolgimento e dell’annientamento cui il vento d’autunno trascina ogni elemento, nella prima parte della poesia, improvvisamente le sognanti immagini del Mare Mediterraneo, a Napoli, nel golfo di Baia, affiorano alla memoria di Shelley, e ne costituiscono la parte centrale. Shelley vi era stato nel 1818 e aveva visto, sporgendosi dalla barca
“…gli antichi palazzi e le torri
tremanti nel giorno più splendente dell’onda,
tutti sommersi da fiori e muschi azzurri
così dolci che svieni a descriverli…”
La visione di quelle rovine preziose e quasi intatte sotto l’acqua, ricoperte di fiori azzurri, gli era apparsa come un sogno del mare, sentito come un’entità spirituale, e gli aveva trasmesso una percezione della morte come da un’altra dimensione, oltre uno specchio. Improvvisamente la morte lo aveva affascinato e ancora, nel ricordo, lo seduce e gli sconvolge i sensi. Ma non più all’insegna della distruzione. Certo, il vento selvaggio aprirà voragini in quel mare calmo e su tutte le distese dell’Atlantico, ma Shelley sa che il bagliore del “giorno più splendente dell’onda” tornerà e forse anche per la storia degli uomini sarà possibile un nuovo inizio, una rigenerazione verso la giustizia e la pace, quando finalmente irromperà la forza cosmica del vento che preserva.
La poesia è uno specchio
Questa frase è tratta dal saggio Difesa della poesia che Shelley scrisse nel 1821 come risposta al divertente Le quattro età della poesia del suo amico Thomas L. Peacok, il quale sosteneva che la poesia del loro tempo, piena di sentimentalismi, descrizioni di paesaggi e compiacimenti autoreferenziali, era morta, e assolutamente inutile alla società, che poteva sperare in una rigenerazione solo grazie alla scienza. La replica, molto seria, di Shelley insiste con passione sulla poesia come connaturata all’uomo, espressione dell’immaginazione che è una facoltà superiore alla ragione, e tutt’altro che inutile, perché da sempre un “grande strumento della morale e quindi di ogni civiltà e progresso”. Shelley traccia un’ampia storia della poesia, da Omero e dal teatro greco alla poesia romana e ellenistica, da quella del Medio Evo e del Rinascimento a quella contemporanea, e ne dimostra il valore fondante della civiltà, della religione e del pensiero. Descrive quindi il poeta come un uomo diverso dagli altri, perché conosce l’ispirazione e l’intuizione e parla “come se una natura più divina penetrasse” in lui e lo rendesse capace di indurre gli uomini ad agire verso il bene e la giustizia. E conclude con parole che sono rimaste celebri: “I poeti sono i sacerdoti di un’ispirazione non ancora percepita, gli specchi delle ombre gigantesche che il futuro proietta sul presente; le parole che esprimono ciò che essi non comprendono, le trombe che chiamano a battaglia e non avvertono ciò che ispirano, la forza che non è mossa, ma muove. I poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo”.
Come si è detto a proposito di “Le onde una a una si abbracciano”, anche questo verso è tratto da Filosofia dell’Amore del 1818, una canzonetta amorosa in stile giocoso, forse dedicata a una fanciulla di nome Sofia (cui allude la parola “filo sofia” ovvero “amante di Sofia”), che lo ha sedotto con la sua bellezza e gli “sfrenati arpeggi” delle sue esecuzioni musicali. Ma qui, invece di un commento, appare più consono all’argomento riportare le parole dello stesso Shelley dal suo breve saggio Sull’Amore del 1818: “Che cos’è l’Amore? Domanda a chi vive che cosa sia la vita; domanda a chi adora che cosa sia Dio…. Tu chiedi che cosa sia l’Amore…. E’ il legame e il consenso che unisce un essere umano non solo a un altro essere umano, ma a tutte le cose viventi…. Un sentimento capace di farci uscire dalla nostra stessa natura e identificarci con il bello che esiste in pensieri, azioni o persone, altri da noi stessi”. L’Amore induce l’anima a cercare un’altra anima affine in cui rispecchiarsi al fine di trovare un “Paradiso che la sofferenza, il dolore e il male non osano oltrepassare” e “la cui privazione non dà riposo né tregua al cuore che ne è dominato”. Perciò nella solitudine, o in quello stato di abbandono in cui siamo circondati da esseri umani che non ci comprendono, proviamo amore per i fiori, per l’erba, per le acque e il cielo. C’è un’eloquenza nel vento senza voce e un dolce canto nei ruscelli che scorrono o nel fruscio dei giunchi sulle loro sponde che, grazie alla loro segreta armonia con qualcosa della nostra anima, risvegliano gli spiriti a una danza estatica, e fanno sgorgare lagrime di misteriosa tenerezza, come l’entusiasmo per i successi patriottici o la voce di una donna amata che canta per te solo. Sterne dice che se si trovasse in mezzo a un deserto si innamorerebbe di un cipresso. Quando questo bisogno o questa facoltà si estingue, l’uomo diventa il sepolcro vivente di se stesso, e ciò che sopravvive è solo “il guscio di quel ch’egli era un tempo”.
Questo verso è tratto dalla strofa centrale dell’ode La Mascherata dell’Anarchia scritta in occasione della strage di Manchester, forse la più importante e famosa delle poesie civili e politiche di Shelley dettate dal suo credo umanitario che si opponeva allo strapotere delle classi dirigenti, allo sfruttamento dei poveri e alle guerre. E’ un poema che compone “col torrente dell’indignazione che gli ribolliva nelle vene” alla notizia del massacro del 16 agosto 1819 a Manchester, in Saint Peter Field, detto massacro di Peterloo, dove un gruppo di soldati aveva sparato su una folla inerme che chiedeva una riforma parlamentare, provocando molti morti e centinaia di feriti. La prima parte è un’invettiva contro il governo inglese e i suoi ministri, Castelreagh per primo, presentati come un osceno corteo di assassini al seguito dell’Anarchia, cioè il Caos, e preoccupati solo di asservire e massacrare e di uccidere la Speranza, raffigurata come una ragazza che muore (queste allegorie piaceranno a Bertold Brecht). E’ anche un invito a tutti gli oppressi a ritrovare la Libertà, che è giustizia, saggezza, pace, amore, ma anche doverosa rivendicazione di diritti. Questo è il nucleo del pensiero politico di Shelley: le richieste indurranno “la banda del Tiranno a caricare le vostre mogli e voi” e a coprire l’erba di sangue, ma vendicarsi non è da uomini.
E’ allora sentire la feroce
Sete di sangue e ripagare
Sangue con sangue, e torto con torto-
Non fate questo se siete uomini.
….
E se poi i tiranni osassero,
lasciate che cavalchino fra voi, squarcino e trafiggano, mutilando e spaccando;
faccian pure quel che vogliono.
Con braccia conserte e fermo sguardo,
poca paura e ancor meno sorpresa,
guardateli mentre fan strage
finché la loro rabbia non si estingua.
…..
Come leoni dal sonno levatevi,
invincibili legioni,
a terra scrollatele vostre catene
come rugiada che di notte vi ha bagnato-
voi siete molti-loro sono pochi.
Shelley sostiene che gli assassini sarebbero tornati un giorno pentiti e che si sarebbe quindi realizzata la vittoria sull’oppressione: elabora qui il principio della resistenza civile passiva che sarà riproposto e discusso fino ai nostri giorni. Gandhi ha iniziato a teorizzare la non-violenza leggendo questi versi.
Mare insondabile! le cui onde sono anni,
Oceano del tempo, le cui acque di profondo dolore
son salmastre per il sale delle umane lacrime
Inizia con questi versi la poesia Tempo, forse scritta nel 1821 in occasione della rivolta dei Greci contro i Turchi, seguita da un abbozzo di seconda strofa in cui si allude alle grandi civiltà scomparse, dall’India all’Assiria a Roma. La visione del passato è un tema sempre presente nelle opere di Shelley: più volte e con modalità diverse ha immaginato di ripercorrere la storia umana dall’ inizio, rivivendone le vicende tragiche di guerra e di morte. Nel poema giovanile La Regina Mab, la protagonista attraversa in volo tutta la storia, dal suo inizio fino a un preannunciato futuro, guidata da Mab, la regina delle Fate. Nelle lunghissime note filosofiche (che Marx e Engels apprezzeranno) Shelley esprime poi la sua visione del mondo, denuncia corruzione e violenze dei governi, teorizza l’amore libero e anche il vegetarianismo. La concezione tragica della storia umana, collettiva e individuale, è però il substrato su cui si sviluppano le profezie di una rigenerazione del mondo. L’amore e la scienza, non miracoli o profezie, afferma ne La ReginaMab, riusciranno ad affratellare anche uomini e animali, così che il leone si sdraierà accanto all’agnello, e diventeranno mansuete vipere e carnivori: la morte sarà come un dolce sonno.
Nell’ Ode al vento di ponente lo Spirito che preserva porterà nuova vita al mondo devastato, e nel dramma lirico Prometeo Liberato il titano, che dichiara “Io non voglio che nessun essere vivente soffra”, perdona il suo persecutore e libera così l’universo intero dalla morte e da ogni dolore. Nelle poesie civili, dalla Mascherata dell’Anarchia, L’Inghilterra nel 1819 e la Canzone agli uomini d’Inghilterra, all’Ode a Napoli e Hellas, in occasione dei moti rivoluzionari in Italia e in Grecia, la visione tragica del passato è sempre funzionale alla speranza della vittoria e al rinnovamento della grandezza passata.
The Azure path
“Il sentiero azzurro”. Con queste parole Shelley descrive l’ascesa della luna nell’azzurro sentiero del cielo in Versi scritti nel Golfo di Lerici, una delle poesie del 1822 dedicate, negli ultimi mesi della sua vita, a Jane Williams, cui lo legava un’intensa amicizia, forse un amore. Jane, con il marito Edward, che morirà nel naufragio dell’8 luglio insieme a Shelley e al mozzo Charles Vivian, si era trasferita da Pisa a San Terenzo, insieme agli Shelley, e viveva con loro nella Villa Magni. Suonava la chitarra e l’arpa e cantava, commuovendo chi l’ascoltava, in particolare Shelley, che le dedicò versi dolcissimi; le fece anche dono di una chitarra accompagnata da una lirica, secondo la tradizione cortese, in cui si firmava Ariel, il nome dello spiritello della Tempesta di Shakespeare (lo stesso nome che aveva dato alla sua barca), dichiarandosi angelo custode dell’amore tra lei e il marito. Amore, amicizia, mare, cielo, per qualche attimo Shelley riusciva ad essere felice. In questa poesia lamenta che Jane lo abbia lasciato solo, all’alba, quando la luna ha finito di ascendere l’azzurro sentiero verso la cupola del cielo, e abbia posto fine all’incanto che la sua voce suscitava per cui
il passato e il futuro
erano dimenticati, come
non fossero mai stati o dovessero essere
Al tempo stesso Shelley stava inseguendo sempre più angosciosamente il significato della vita che non riusciva a trovare, e lo stava esprimendo nel suo ultimo e tragico poema, Il trionfo della vita, che è in realtà un trionfo della morte, non solo di ogni essere vivente, ma anche di ogni amore e illusione e forma di bellezza. E questa consapevolezza dolorosa lo sommerge non appena la cara amica si allontana: la poesia termina con questi versi sconsolati:
Ma subito, appena il mio angelo
custode scomparve, ritornava il demone
a riprendersi il trono del mio cuore fragile.
Verso tratto da Filosofia dell’Amore del 1818, una canzonetta amorosa in stile giocoso, forse dedicata a una fanciulla di nome Sofia, (cui allude la parola “filo sofia” ovvero “amante di Sofia”), che lo ha sedotto con la sua bellezza e gli “sfrenati arpeggi” delle sue esecuzioni musicali. Il tema dell’amore tra gli elementi è antico quanto la poesia, e Shelley ne aveva trovato infiniti esempi nel passato, da Ovidio al Tasso, e nel presente persino nelle canzoni d’amore. Conosceva anche e amava i versi che il medico scienziato e poeta Erasmus Darwin, il nonno di Charles, considerato l’iniziatore dell’evoluzionismo, aveva dedicato alla corrispondenza amorosa fra tutti gli elementi dell’universo. Nei suoi poemi Gli amori delle piante e Il tempio della Natura Erasmus aveva addirittura sostenuto che la morte di un organismo era un avvenimento pieno di gioia per tutti gli altri esseri viventi, che potevano trarne nutrimento. Shelley qui dichiara il suo amore come un fatto che avviene “per divina legge” e invita la ragazza giocosamente a corrisponderlo:
Baciano i monti, vedi, l’alto Cielo
e le onde una a una si abbracciano;
nessun fiore-sorella sarebbe perdonato
se disdegnasse il suo fratello;
e la terra il sole abbraccia con la luce
e i raggi della luna il mare baciano:
tutto questo dolce baciare cosa vale
se tu non baci me?
Questa visione del vento compare nella parte finale della poesia che è stata intitolata Versi scritti nel Golfo di Lerici menzionata anche nell’opera collocata alla Rocchetta in cui sono incise le parole The Azure path. E’ una delle ultime poesie scritte da Shelley, nel giugno 1822, un mese prima della morte: fa parte del “canzoniere per Jane”, un gruppo di poesie dedicate a Jane Williams cui lo legava un’intensa amicizia, forse un amore. Jane, e il marito Edward, che morirà nel naufragio dell’8 luglio insieme a Percy e al mozzo Charles Vivian, erano venuti da Pisa insieme agli Shelley e vivevano con loro nella Villa Magni. Jane suonava la chitarra e l’arpa, e cantava, commuovendo chi l’ascoltava, in particolare Shelley, che le dedicò versi dolcissimi; le fece anche dono di una chitarra accompagnata da una lirica, secondo la tradizione cortese, in cui si firmava Ariel, il nome dello spiritello della Tempesta di Shakespeare (lo stesso nome che aveva dato alla sua barca), dichiarandosi angelo custode dell’amore tra lei e il marito. Questa poesia si divide quasi in due momenti: nella prima parte Shelley lamenta che Jane lo abbia lasciato solo, all’alba, quando la luna ha finito di ascendere l’azzurro sentiero verso la cupola del cielo, e abbia posto fine all’incanto che la sua voce suscitava in lui facendogli dimenticare il passato e togliendogli ogni angoscia per cui il futuro. La seconda parte inizia invece con versi sconsolati
Ma subito, appena il mio angelo
custode scomparve, ritornava il demone
a riprendersi il trono del mio cuore fragile.
Verso la fine della poesia, per altro incompiuta, compare l’immagine del vento che respira leggero sul mare mentre emerge la consapevolezza che non c’è possibile pace per chi ha compreso la perversità e l‘autodistruttività delle passioni umane. Shelley stava allora inseguendo sempre più angosciosamente il significato della vita che non riusciva a trovare, e lo stava esprimendo nel suo ultimo e tragico poema, anch’esso incompiuto, Il trionfo della vita, che è in realtà un trionfo della morte, non solo di ogni essere vivente, ma anche di ogni amore e illusione e forma di bellezza.
Queste parole non sono di Percy Shelley, ma di Eugenio Montale, e sono tratte dalla poesia Antico, sono ubriacato dalla voce che fa parte del poemetto giovanile Mediterraneo, composto nel 1924 e collocato al centro della raccolta uscita con il titolo di Ossi di seppia, a Torino, nelle edizioni di Piero Gobetti, nel 1925. Una voce, quella di Montale, che, forse meglio di ogni altra, ha saputo diventare, nel secolo scorso, “il segno di riconoscimento di più di una generazione, uno scatto immediato della memoria” come è stato detto. Mediterraneo è un dialogo ininterrotto di Montale col mare, attraverso nove poesie che tentano di spiegare il rapporto di fascinazione e ripulsa che si instaura tra il grande principio cosmico, sentito come un padre, e il figlio, che, da adulto, vorrebbe, ma non può corrisponderlo come nell’infanzia.
Essere vasto e diverso e insieme fisso e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso
è l’ammonimento, la legge, che il mare trasmette al bambino immerso nei suoi mille giochi a Monterosso, nelle Cinque Terre, sconvolgendolo e al tempo stesso annichilendolo con le sue mareggiate, perché possa sentirsi tutt’uno con il flusso della vita e della morte, e poi della rigenerazione. E vengono riportate qui, nel marmo, quasi un invito inciso per tutti, a indicare una via di accordo con la natura che sia vitalistica e panica sì, ma etica al tempo stesso. Ammonimento di cui il poeta, da adulto, non si sente più degno, perché incapace di svuotarsi di lordure e contraddizioni e attaccato tormentosamente alla terra. Nel dialogo, sempre cercato e ininterrotto, il giovane Montale non riesce a trovarsi più in accordo col mare, che arriva ad apparirgli disumano e nemico, e sente crescere in sé la rancura che ogni figliolo, mare, ha per il padre. Perché sa di essere come un’agave attaccata allo scoglio che rifugge ai gorghi ruggenti cui ogni elemento si arrende; ama le sue sottili radici e al tempo stesso se ne vergogna; e nel fermento di ogni essenza, coi miei racchiusi bocci che non sanno più esplodere io sento la mia immobilità come un tormento. In fondo al cuore, però, gli resta, per tutta la vita, il suono di quell’ammonimento, l’eco della legge rischiosa del mare, la speranza che un poco del tuo dono sia passato per sempre nelle sillabe che rechiamo con noi, api ronzanti.
Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche
quando si schiudono come verdi campane
e si ributtano indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro, mare,
ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro.
Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento del mio cuore
non era che un momento del tuo;
che mi era in fondo la tua legge rischiosa:
esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.
Arte, poesia e paesaggio si fondono per dare vita ad una nuova suggestiva esperienza all’interno del Parco Regionale di Montemarcello – Magra Vara, area protetta che si estende dalla collina alla costa, regalando panorami mozzafiato. Il nuovo Parco Letterario Percy Shelley è fonte di ispirazione per itinerari, diversi per durata e intensità, fruibili da chiunque, ciascuno in base alle proprie capacità e attitudini
Si inserisce come un parco diffuso tra il mare e la montagna, un’occasione per scoprire sia i luoghi del poeta, sia altri tesori nascosti – essi stessi poesia – attraverso una coinvolgente esperienza artistica multisensoriale. In questo contesto, anche l’antica stamperia clandestina di Villa Volpara, detta “il Fodo”, diventa un nuovo punto nevralgico dove gli anelli Percy e Mary si “incontrano” come in una danza tra due poeti innamorati.
Alla Pietraia della Rocchetta, otto opere d’arte di Marco Nereo Rotelli – libri letterari in marmo con scolpiti i versi shelleyani – ricreano un piccolo museo a cielo aperto, uno spazio contemplativo dove ammirare il paesaggio, lasciandosi trasportare dalla suggestione poetica trasmessa dall’arte e dal panorama stesso.
Parallelamente, a San Terenzo, Parco Shelley – accanto a Villa Magni, ultima dimora terrena del poeta – diventa teatro di una nuova scenografia ove ammirare altri libri poetici, scoprendo il luogo iconico e senza tempo che ispirò gli ultimi componimenti di Shelley prima della sua tragica scomparsa.
La parola all’artista, Marco Nereo Rotelli: “Il piccolo parco letterario dedicato a Percy Shelley è stato realizzato scolpendo il marmo, plasmandolo a forma di libro e scolpendo i versi magici di questo grande poeta. Nella località detta “Pietraia” è stato ideato un percorso dove le sculture sono parte del paesaggio stesso. Un luogo di una struggente poesia di meditazione, di incontro tra l’essere e l’ambiente. Riprendendo le parole di un altro grande poeta, Joseph Brodsky: È come se lo spazio, consapevole della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: la bellezza.”
Una delle opere collocate a Parco Shelley riporta un verso di Eugenio Montale, in una sorta di ponte letterario che collega il Golfo dei Poeti alle Cinque Terre, tra due voci che hanno cantato, ciascuna a proprio modo, la Liguria … una Regione che è, essa stessa, poesia.