PERCY BYSSHE SHELLEY

di Carla Sanguineti

Percy Bysshe Shelley, un giovane sempre innamorato: del mondo, delle donne e degli uomini che avrebbe voluto felici, liberi da malattie miseria e guerre; degli animali, di cui non voleva cibarsi; dei fiumi e del mare, dei monti e dei boschi, del vento, del sole della luna e delle stelle, del canto degli uccelli e delle nuvole, della bellezza in tutte le sue forme. Ma anche della libertà e della giustizia, delle società pacifiche e solidali, dell’eroismo di chi si sacrifica per il bene degli altri.

E fu amato, a sua volta, da poeti e scrittori, musicisti e cantanti, politici e uomini di governo.

Infanzia e studi

Infanzia
Percy Bysshe Shelley nasce il 4 agosto 1792 a Field Place, Warnham. nella contea del West Sussex, in una ricca e aristocratica famiglia, primogenito di Sir Timothy Shelley e di Elizabeth Pilfold di cui ricorderà la bellezza; dopo di lui quattro sorelle: Elizabeth, Mary, Hellen e Margaret, e a distanza di anni, il fratellino John.

Il bimbo si rivela subito ben lontano dall’ideale figlio maschio di un nobile di aristocrazia terriera: è sensibilissimo, ha orrore della caccia e della pesca cui il padre vuole iniziarlo, ama appartarsi a leggere racconti di fantasmi e libri di magia, scrive poesie, insieme alle sorelle predilette, sul prato che si apre davanti alla casa. Invano la madre, che non riesce a dargli l’affettività di cui ha bisogno, cerca di allontanarlo dalla lettura: il bimbo è dolce ma irremovibile. E il dissidio con il padre si aggrava con gli anni fino a diventare irrimediabile.

Studi
Shelley inizia precocemente lo studio del latino e del greco e, dal 1802 al 1804, studia alla Syon House Academy di Isleworth (vicino a Londra) insieme al cugino Thomas Charles Medwin; lo studio del greco antico, in cui eccellono entrambi, è una passione che li unirà per tutta la vita.

Qui inizia la storia delle amicizie di Shelley che furono tante e intense, nate da ideali di vita e passioni intellettuali comuni, più forti di ogni screzio o incomprensione. Raccontare la vita di Shelley significa quindi raccontare anche dei suoi amici, e del loro continuo dialogo e mutuo sostegno, fino alla morte e si potrebbe dire anche oltre, dato che molti di loro ne diventarono poi biografi appassionati.

Nel 1804 Shelley entra nel prestigioso collegio di Eton, dove resterà fino al 1809. Eccelle subito nelle materie letterarie e in quelle scientifiche, ma si scontra con la durezza e l’incitamento alla competitività dei metodi educativi di allora e con i compagni stessi. che lo chiamano “il pazzo Shelley”, mad Shelley. Anni dopo la sua morte, così Mary Shelley lo avrebbe descritto pubblicando e stampando le sue opere “I soprusi che egli, tremando in ogni fibra, ma con fermezza eroica, ebbe la sfortuna di incontrare a scuola e in collegio, lo portarono a dissentire in tutto e per tutto da coloro che argomentavano solo a suon di botte, e che professavano una fede che sembrava produrre colpa e odio [… ] mentre la religione, così come veniva professata, e soprattutto praticata, gli appariva niente affatto propizia, anzi decisamente ostile allo sviluppo di quelle virtù che renderebbero gli uomini tutti fratelli. Dobbiamo meravigliarci? A diciassette anni, delicato di salute e di costituzione, di abitudini morali purissime, pieno di devota generosità e di gentilezza per tutti, acceso di passione per la saggezza, pronto a ogni sacrificio in nome del bene, desiderando ardentemente affetto e simpatia, veniva trattato come un reprobo, bandito come un criminale. E tutto perché era sincero, e credeva fermamente nelle opinioni che riteneva vere. Amava la verità con l’amore di un martire ed era pronto a sacrificare sul suo altare il proprio stato sociale, la ricchezza, e gli affetti più cari.”

Accade così che Shelley si apparti dai compagni che disprezza; legge testi di alchimia, si dà a esperimenti scientifici con l’elettricità rischiando di prendere fuoco, tenta di evocare il diavolo, scrive tenebrosi romanzi gotici, Saint Irvyne e Zastrozzi. Trova tuttavia maestri per lui importanti che lo iniziano alla filosofia e allo studio delle scienze antiche e moderne, come il dottor James Lind, che avrebbe sempre ricordato con venerazione. Contemporaneamente ottiene solidarietà e affetto da compagni che resteranno legati a lui tutta la vita, primo fra tutti il già ricordato Thomas Medwin, che avrà analogo dissidio col padre, stesso amore per la scrittura e la traduzione del teatro greco (come lui scriverà una tragedia su Prometeo) e una vita avventurosa che lo porterà in giro per il mondo. Scriverà di aver deciso di ricongiungersi con Shelley in Italia dopo aver subito una vera e propria conversione leggendo in India una sua opera e ne scriverà una biografia, Vita di Shelley, nel 1847; farà scrivere sulla sua tomba “Era un amico di Shelley Byron e Trelawny” (Edward Trelawny, a sua volta grande amico di Shelley, come si dirà più avanti, ne scrisse una memoria e volle essere sepolto accanto a lui a Roma). E poi Thomas Jefferson Hogg, incontrato all’università di Oxford nel 1810, con cui condivise ideali di vita, dalla scrittura al vegetarianismo all’amore libero, che ne ha lasciato ritratti pieni di affetto e di humor nelle sue opere satiriche e In Memories of Prince Alexy Haimatoff. Iniziò anche  una biografia, La vita di Percy Shelley, nel 1858.

Il giovane Shelley disprezza dunque le istituzioni scolastiche e religiose che considera oppressive e giudica una degradazione morale la vita degli insegnanti e degli studenti. Soffre per la miseria e le sofferenze che vede nei quartieri poveri e operai: comincia a propugnare l’eguaglianza tra gli uomini e il superamento di ogni ingiustizia.

Nel 1811, insieme a Hogg, scrive un libretto anonimo, La necessità dell’ateismo, The Necessity of Atheism, che invia a ecclesiastici e direttori di college in cui sostiene, sostanzialmente, che le istituzioni religiose e scolastiche sono una forma di potere da cui gli uomini devono liberarsi: “Mi dichiaro ateo per esprimere la mia avversione per la superstizione” avrebbe scritto. A causa dello scandalo e dopo una pubblica requisitoria, il 25 marzo, i due, rei confessi e irriducibili, vengono espulsi da Oxford.

I genitori la prendono molto male: Hogg ottiene più facilmente una riconciliazione e si trasferisce a York per studiare avvocatura; e questa sarà poi la professione in cui darà prove eccelse, senza tralasciare la sua vocazione letteraria. Per Shelley invece è una catastrofe: Sir Timothy non vuole avere più rapporti con lui, arriva a diseredarlo e non lo perdonerà mai, neanche dopo la morte.

Amori, politica e vegetarianesimo

1811. Shelley ha diciannove anni: comincia anche per lui l’età degli innamoramenti e delle amicizie femminili sempre in procinto di diventare amori: per la colta maestra Elizabeth Hitchener e le sorelle Elisa e Harriet Westbrook, con le quali inizia un sodalizio che durerà anni (e che include sempre Hogg), formalizzato addirittura dal matrimonio con Harriet. La ragazza quindicenne si era rivolta a lui disperata perché il padre voleva metterla in prigione, cioè mandarla a scuola, e lui, prontamente, l’aveva salvata, accorrendo con una carrozza con cui l’aveva rapita e l’aveva, pochi giorni dopo, il 29 agosto 1811, sposata. Con Harriet porta avanti i suoi sogni riformatori e rivoluzionari: si reca in Irlanda in una avventurosa spedizione che aveva il proposito di alleviare la condizione di miseria dei lavoratori e la persecuzione di cui erano oggetto i cattolici: scrive un pamphlet, Discorso agli Irlandesi, An Address to the Irish People, e altre dichiarazioni che invitano alla pace e alla riconciliazione; lancia palloni e messaggi in bottiglia, partecipa a riunioni con i cattolici: viene seguito e schedato dalla polizia, finché giudica, amareggiato, di aver intrapreso un’azione intempestiva e inutile. In Irlanda il suo dolore per le sofferenze altrui si estende dagli umani agli animali: diventa vegetariano e ne teorizza l’utilità e la necessità.

È sempre alla ricerca di poeti e letterati che abbiano i suoi stessi ideali: legge la rivista radicale The Examiner e diventa amico fraterno di Leigh Hunt, che insieme al fratello John, la edita e la dirige, e sconterà stoicamente due anni di prigione per aver attaccato il Principe Reggente. Conosce il poeta ‘laureato’ Robert Southey che un giorno lo deluderà, accusando lui e Byron di aver fondato una scuola poetica ‘satanica e empia’; incontra l’esordiente John Keats e Charles Lamb. E si lega di amicizia fraterna con il dotto Thomas Love Peacock, funzionario della Compagnia delle Indie, che ha lasciato di Shelley un divertente ritratto satirico ne L’Abbazia degli Incubi, Nightmare Abbey, del 1818.

Ma i momenti più importanti, che daranno una svolta alla sua vita, sono le opere di Erasmus Darwin e di William Godwin.

Erasmus Darwin e la Lunar Society

Erano anni di grande fervore scientifico, in cui gli esperimenti elettrici di Luigi Galvani con le rane e di Giovanni Aldini, addirittura col cadavere di un giustiziato che una scossa elettrica aveva fatto alzare in piedi per qualche minuto, facevano sperare che fosse possibile ridare vita ai corpi morti.

Erasmus Darwin era allora famosissimo, una vera star della seconda metà del Settecento; aveva innamorato di sé, medico insigne e generoso, non solo le belle donne, lui enorme claudicante e butterato, ma tutta l’Inghilterra, reali compresi. Medico condotto, ma sperimentatore e precorritore di terapie, dai vaccini all’igiene ambientale e alla cura dei malati di mente, aveva descritto lo sviluppo della vita sulle terra in termini di evoluzione, aprendo la strada agli studi del nipote Charles Darwin che ne avrebbe poi scritto una appassionata biografia. Costruttore anche di tanti marchingegni, dal telefono alla fotocopiatrice, e precorritore di invenzioni quali l’aereo e il sottomarino, Erasmus era celeberrimo per aver condotto esperimenti sulla vita riuscendo a far rivivere, come si diceva allora, dei vermicelli in una boccia di vetro. Era anche un letterato e poeta e aveva scritto poemi dedicati alla natura, The Botanic Garden e The Temple of Nature: il suo proposito era quello di arruolare la scienza sotto la bandiera della poesia” e aveva quindi tradotto in versi e visioni il mondo naturale.

Aveva anche raccolto intorno a sé, a Birmingham, inventori scienziati ingegneri e artisti, che furono tra i protagonisti della rivoluzione scientifica tecnica e industriale dell’Inghilterra, nella Lunar Society, cosiddetta perché si riunivano alla notte quando c’era la luna piena che illuminava le strade. E molti di loro erano poeti oltre che scienziati, a causa della passione quasi mistica con cui vivevano il loro rapporto con la natura, come il medico William Lawrence, dissezionatore, grande amico degli Shelley, autore del poemetto On Life. Tra loro c’erano Josiah Wedgwood, creatore della celebre industria di ceramica, Joseph Priestley e Benjamin Franklin che lavoravano a esperimenti chimici e elettrici, James Watt, inventore della macchina a vapore, John Whitehurst, costruttore di orologi e inventore di macchine idrauliche, il grande chimico Humphry Davy, Samuel Galton, uomo d’affari e scienziato, il medico James Lind già ricordato, e William Small, medico, che fu insegnante, nella colonia inglese della Virginia in America, del presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson.

Shelley è affascinato dall’attività poetica di Erasmus, ma soprattutto da quella scientifica, che gli sembra permetta di esercitare parti del cervello fino ad allora inesplorate e lo ricorderà anni dopo, scrivendo la prefazione al romanzo Frankenstein di Mary Shelley che affrontava appunto il tema della vittoria della scienza sulla morte.

William Godwin e Mary Wollstonecraft

L’incontro con William Godwin, fondatore della filosofia anarchica e sostenitore dell’evoluzione pacifica della società, ancora di più determina in Shelley l’inizio di una nuova vita. Trova infatti esplicitati i suoi ideali umanitari e politici nella, allora famosissima, Inchiesta sulla politica sociale, Enquiry concerning Political Justice del 1793, nei saggi e nei numerosi romanzi, tra cui Caleb Williams. Gli scrive una lettera entusiasta nel 1812 e si reca quindi a trovarlo.

Assetato com’è di una guida spirituale e morale, in conflitto con tutte le istituzioni e umiliato dalla cacciata dalla famiglia, sente di aver trovato un padre. E Godwin, maestro generoso, lo corrisponde. Per Godwin, come poi per Shelley, la Rivoluzione francese aveva incarnato sogni millenari di giustizia, uguaglianza e fraternità, annegati poi nel bagno di sangue del Terrore. Ma per avere sostenuto all’inizio la Rivoluzione, Godwin era stato implicato come filo-giacobino nei processi del 1794 contro i nemici della patria, e costretto, quindi, benché assolto, a vivere, quasi in povertà, editando libri.

Godwin aveva sposato nel 1797, Mary Wollstonecraft, scrittrice e giornalista, che si era recata a Parigi per seguire in prima persona la rivoluzione francese. Era l’autrice della Rivendicazione dei diritti della donna, A Vindication of the Rights of Woman del 1792, pietra miliare per il movimento delle donne nell’Europa rivoluzionaria della fine del ‘700, e di romanzi in cui veniva esplicitata la realtà femminile di soggezione e violenze, tra cui Maria, un romanzo, Mary: a Fiction, del 1788 e Maria, gli sbagli delle donna, The Wrongs of Woman or Maria del 1798. Aveva anche lei attraversato dolorose vicissitudini legate al sogno, rivelatosi infausto, della Rivoluzione: a Parigi aveva assistito con sgomento alla decapitazione di Luigi XVI e aveva visto il sangue scorrere per le strade. Dopo l’inizio della guerra dell’Inghilterra contro la Francia, aveva rischiato di essere imprigionata come nemica, in quanto inglese, ed era stata salvata da un americano, Gilbert Imaly, che l’aveva fatta passare per sua moglie. Da questa relazione, per lui soltanto un’avventura, era nata una bimba, Fanny: al rientro dalla Francia, sconvolta per il fallimento dei suoi sogni e della sua vita, Mary W. aveva tentato il suicidio. L’aveva salvata l’amore di Godwin. In loro, genitori della Mary che poi avrebbe amato e sposato, Shelley aveva trovato il padre e la madre ideali.

Da questa relazione, per lui soltanto un’avventura, era nata una bimba, Fanny: al rientro dalla Francia, sconvolta per il fallimento dei suoi sogni e della sua vita, Mary W. aveva tentato il suicidio. L’aveva salvata l’amore di Godwin. In loro, genitori della Mary che poi avrebbe amato e sposato, Shelley aveva trovato il padre e la madre ideali.

Nel frattempo il matrimonio con Harriet, dolce e innamorata, delude Shelley, che avrebbe voluto una compagna colta e intellettuale alla sua, per altro straordinaria, altezza. Nel 1813 prende periodi di lontananza soggiornando in Galles, nel villaggio di Tremadoc, modello di sperimentazioni sociali industriali e ingegneristiche sostenute da William Madocks, e nella comune di Bracknel, che si riunisce intorno alla signora Harriet de Bonville, vedova di un aiutante da campo del generale Lafayette, circondata da un’aura di rivoluzione francese e circoli parigini. Qui si praticano il vegetarianismo – teorizzato dal dott. John Frank Newton, autore di Ritorno alla natura, The Return to Nature, e dal dott. William Lambe, inventore di una macchina per distillare l’acqua – e il nudismo, soprattutto per i bimbi (gli adulti in privato), e si teorizza il libero amore insieme allo scrittore James H. Lawrence e al suo libro The Empire of Nairs or the Rights of Women. Di salute sempre molto cagionevole e afflitto da dolori in tutto il corpo, Shelley segue scrupolosamente i dettami vegetariani sperando di trarne profitto, ma, secondo Hogg, ottiene solo di aggravare e la sua debolezza.

La Regina Mab

Scrive in questo periodo, La Regina Mab, Queen Mab, un poema filosofico di 9 canti con 17 lunghissime note, che pubblica a proprie spese in un limitato numero di copie, dedicandolo, amorevolmente, a Harriet e poi, in una stampa successiva, a Godwin. Vi affronta, attraverso un volo guidato in sogno dalla regina delle fate Mab, tutti i temi che gli saranno propri nelle opere successive: una visione del mondo e dell’universo, dalle origini e attraverso le civiltà scomparse, fino alla presente, intrisa di dolore malattie e guerre, analizzando le cause di ogni male e perversità, che potranno però essere superati, nel futuro, dall’ amore fra gli uomini e dalla forza della scienza. L’amore e la scienza, non miracoli o profezie, afferma, riusciranno ad affratellare anche uomini e animali, così che il leone si sdraierà accanto all’agnello, e diventeranno mansueti vipere e carnivori: la morte sarà come un dolce sonno. “O Terra felice! Realtà del Cielo! – scrive – tu culmine d’ogni speranza mortale, in cui

[…] l’uomo, che prima passava per la transeunte scena
rapido come un’obliata visione, sta
immortale sopra la terra¸ non più ora
uccide l’agnello che lo guarda negli occhi
e orribilmente divora la carne fatta a brani
che […] accendeva ogni putrido umore nel suo corpo,
ogni malvagia passione e vana credenza,
odio disperazione e ripugnanza nella sua mente,
i germi di miseria, morte, malattia e crimine.
[…]
Tutte le cose sono prive di terrore: l’uomo ha perso
la sua terribile prerogativa e sta
un uguale fra uguali: felicità e scienza albeggiano, anche se tardi, sulla terra;
la pace allieta la mente, la salute rinnova il corpo;
[…] mentre ogni forma e modo della materia presta
la sua forza all’onnipotenza della mente […]”

Il poema è scritto in versi, mentre le note, in prosa, affrontano i temi della corruzione economica e politica, del potere tirannico e della monarchia, della religione e del cristianesimo, dell’ateismo, del libero amore; la nota sul vegetarianismo verrà poi pubblicata a parte col titolo Rivendicazione di una dieta naturale, A Vindication of Natural Diet.

Il poema suscitò scandalo – e la polizia lo tenne in serbo come possibile futuro capo d’accusa – ma ebbe pure un grandissimo successo, aldilà di quanto Shelley potesse immaginare: ne furono anche stampate copie non autorizzate quando lui era in Italia. Fu poi molto apprezzato da anarchici e socialisti, e, tra gli altri, da Carl Marx e Friedrich Engels, proprio per la visione profetica di un miglioramento del mondo grazie alla volontà umana.

Nel giugno 1813 nasce la sua prima figlia, Eliza Ianthe.

Mary e la fuga d’amore

Nel 1814 avviene il capovolgimento definitivo della sua vita.

In casa di Godwin, dove si reca più volte con Harriet, la bimba e un altro in arrivo, conosce Mary, la figlia di Godwin e Mary Wollstonecraft. La ragazza rientrava da un soggiorno in Scozia, a Dundee, ospite di un amico del padre, il Capitano Baxter, che condivideva con Godwin generosità e ideali di vita e aveva figlie che erano diventate molto amiche di Mary (ancora oggi il capitano Baxter è ricordato a Dundee, con l’intitolazione di un grande parco nella zona dove aveva le sue abitazioni e una targa vi ricorda il soggiorno di Mary).

Era stata mandata in Scozia nella speranza che superasse certi disturbi fisici di natura evidentemente psichica ascrivibili ai traumi subiti nell’infanzia.

La madre Mary W., molto amata dal padre, era morta poco dopo il parto e Godwin, rimasto con la neonata e la piccola Fanny di 4 anni, nata dalla relazione della Wollstonecraft con Gilbert Imlay, aveva dovuto risposarsi. Aveva scelto una sua vicina, la vedova Marie Jeanne Clairmont, che aveva a sua volta due figli, Charles e Jeanne. Da questo matrimonio era nato William. Tutto questo non aveva impedito a Godwin di voler fare di Mary quasi una reincarnazione della madre, crescendola nel culto della sua memoria, insegnandole a leggere sui suoi libri, inducendola a recarsi sulla sua tomba a Saint Pancras, finché, di fronte a una adolescente che tutti i giorni andava sulla tomba della madre a leggerne le opere e poi manifestava disturbi fisici, aveva deciso saggiamente di allontanarla.

Probabilmente nell’ottobre Shelley la incontra nella casa paterna a Skinner Street e subito si riconosce in lei, come in uno specchio: stessa cultura, stessi ideali, stesse vocazioni.

Non vuole lasciare Harriet, cui propone subito una triplice convivenza, ma non può più vivere senza Mary. L’innamoramento gli fa intuire la strada per sedurla: sulla tomba della madre a Saint Pancras, ovviamente, e qui, il 26 giugno, la conquista.

Né la disperazione di Harriet, né i furiosi dinieghi di Godwin che lo caccia quando, minacciando di uccidersi, gli chiede la mano di Mary, fermano Shelley, che il 28 luglio, con una carrozza, alle 4 di mattina, rapisce Mary e la sorellastra Jeanne, che nel frattempo ha deciso di chiamarsi Claire.

Fuggono in Europa e a Parigi: scoprono le terre devastate dalla guerra che in Inghilterra non era mai arrivata direttamente, e poi Lucerna, la Svizzera, l’Olanda, il Reno: scrivono subito un diario a quattro mani che terminerà poi Mary da sola, Storia di un viaggio di sei settimane, History of a six week’s tour che sarà poi pubblicato nel 1817, e mentre viaggiano leggono, leggono sempre, primi fra tutti i libri di Mary W. e di Godwin.

Da quel momento in poi Claire avrebbe sempre accompagnato gli Shelley, distanziandosene solo saltuariamente. Non si può asserire con certezza che fosse anche amante di Shelley, nonostante le varie dicerie: è certo però che Mary in parte ne soffrì e ne nacquero spesso tensioni e diverbi.

Il rientro a Londra e Alastor

Rientrano in Inghilterra a metà settembre: alla fine di novembre Harriet partorisce Charles.

Vivono in grandi ristrettezze finanziarie finché Shelley, che rischia l’arresto per debiti, eredita una grossa somma alla morte del nonno nel gennaio 1815 e subito ne gratifica Godwin sempre indebitato (e che aiuterà per tutta la vita) e Harriet.

Il 22 febbraio nasce la prima figlia di Mary e Shelley che muore prematura senza aver ricevuto ancora il nome, lasciando, nella giovane Mary, un’angoscia e incubi ricorrenti che si sommeranno all’eterno rimorso per la morte della madre.

Claire ogni tanto li lascia soli e Mary ne è felice.

Fanno un viaggio in barca sul Tamigi insieme a Peacock, e Shelley scopre il suo amore per il fiume, l’acqua, le barche. Al rientro scrive il poemetto Alastor, o lo spirito della solitudine, Alastor or the spirit of solitude dove “Alastor” è il nome di un demone maligno perché induce alla solitudine e allontana il poeta dall’amore e dalla solidarietà verso gli uomini.

Anche questo poemetto, un viaggio lunghissimo attraverso tutte le regioni del mondo, porta alla ricerca di una sempre più elevata spiritualità e a visioni interiori di grande bellezza, come una fanciulla velata che parla di sapienza bontà e virtù. Qui Shelley immagina per la prima volta la sua morte per acqua.

Trascorrono mesi sereni, in compagnia di Hogg e Peacock, e dei classici greci e latini, e poi italiani, e molti altri autori; la lettura è perenne, silenziosa o a alta voce, in solitudine o in gruppo.

Il 24 gennaio 1816 Mary partorisce William.

Claire nel frattempo corteggia il famosissimo Lord Byron, cui nessuna donna pare possa resistere, e che si trova a Londra in qualità di membro del comitato di direzione del Royal Drury Lane Theatre poco prima che lo travolga lo scandalo dell’accusa di incesto con la sorellastra Augusta Leigh da parte della moglie Annabella Milbanke.

Accade così che, al culmine della gloria letteraria e erotica, Byron viene improvvisamente respinto dalla società che lo aveva idolatrato; nessuna porta più gli si apre, e lui si sente costretto ad andarsene dall’Inghilterra. Verso la fine di aprile salpa da Londra con una sua nave, il suo medico personale, John Polidori – figlio dell’esule Gaetano Polidori che era stato segretario di Vittorio Alfieri – il valletto William Fletcher, i Bravi sua guardia del corpo, vari uccelli esotici e il famoso orso che aveva dai tempi dell’Università a Cambridge. Si dice che le nobildonne sue amanti assistessero dolenti alla partenza travestite da cameriere.

Lord Byron, il lago di Ginevra e Villa Diodati

Ma Claire si ritrova incinta. E allora decidono di raggiungere Lord Byron: partono, con il piccolo William, il 3 maggio e lo raggiungono in Svizzera, sul Lago di Ginevra, dove risiede nella lussuosa Villa Diodati in cui Milton (ospite del suo grande amico Charles Diodati) aveva scritto parte del Paradiso perduto e immaginato Satana e orde di demoni.

Già durante il viaggio Shelley non esita a scandalizzare gli albergatori svizzeri denunciandosi, sul registro degli ospiti di almeno 4 locande, come ateo, democratico e filantropo, scrivendo in greco.

Sul lago affittano un villino a Montalègre, ma vivono poi quasi sempre tutti nella villa di Byron dove si ritrovano con altri scrittori, tra cui Matthew G. Lewis, l’autore del famoso romanzo Il Monaco, The Monk.

È un’estate terribile, priva di sole e inondata di piogge dovute alle ceneri che un’eruzione del vulcano Tamboro, in Indonesia, aveva riversato nell’aria e che sorvolavano tutta la terra, provocando anche carestie e epidemie.
Nelle sere gelide, riuniti intorno al camino, leggono tutti insieme storie di paura, soprattutto la raccolta di racconti tedeschi Fantasmagoriana e pare che Shelley, forse a causa del troppo laudano assunto per lenire i dolori, abbia avuto la visione di una donna con occhi al posto dei capezzoli e sia quindi svenuto.

La fama di eroe perverso lo accompagnava fin dai tempi della sua prima giovinezza, ma adesso coinvolge anche Mary e Claire: circolano voci sul lago che quei giovani non esitino di fronte a nessuna proibizione, dall’amore libero all’uso di droghe. Il film di Ken Russel, Gothic, del 1986, restituisce il clima tenebroso e allucinato del momento.

Pare che la brava gente svizzera avesse piazzato un cannocchiale sulla riva opposta del lago per spiare i movimenti di quel gruppo per loro incomprensibile, che faceva tutto il contrario di quello che si doveva fare, contro la Chiesa e contro lo Stato. Lord Byron, si diceva, un pari d’Inghilterra, e Percy B. Shelley, un baronetto, erano socialisti e anarchici, entrambi respinti dalla loro patria per i troppo scandali in cui erano coinvolti, dall’essere filo-francesi e rivoluzionari mentre il loro paese era in guerra contro la Francia, filo-irlandesi e fomentatori di sedizioni, filo-operai mentre il governo di Londra faceva sparare addosso alle masse di lavoratori in rivolta, e come se non bastasse, atei e sostenitori dell’amore libero. Vivevano tutti insieme e non erano sposati tra loro e esibivano un figlio dello scandalo: di più, erano anche incestuosi.

Byron era fuggito da una Londra che lo idolatrava perché schiacciato dall’accusa di incesto con la sorella e Shelley era l’amante di quelle due donne, Mary e Claire, sorelle tra loro. Alla notte facevano sedute medianiche e esperimenti proibiti insieme al medico personale di Byron, John Polidori. Osavano mostrarsi nudi in giardino, o sulle barche. Lord Byron beveva oltre misura e Shelley assumeva quantità tali di laudano da avere allucinazioni: parlavano con il diavolo e tutti sul lago sapevano che Shelley lo vedeva davvero. Il film merita di essere visto perché dipinge uno a uno tutti i personaggi con molta verosimiglianza e Shelley in particolare, nella sua bellezza angelica, nel suo vegetarianismo, nella sua passione per la natura spinta al punto di arrampicarsi nudo sul tetto della villa durante una tempesta per vedere il fulmine e il fuoco.

Byron racconta in una lettera al suo editore John Murray che la comitiva faceva spesso gite sul lago, e durante una tempesta, arrivata all’improvviso, la barca aveva rischiato di capovolgersi. Lui, abilissimo nuotatore, avrebbe potuto cavarsela, ma Shelley dovette confessare che non sapeva nuotare, e, all’offerta di aiuto da parte dell’amico, rifiutò sdegnosamente, sostenendo che avrebbe voluto inabissarsi.

Questo episodio fa luce sull’attitudine che aveva Shelley a lasciarsi andare nell’acqua come a un abbraccio con il mistero della vita: accadrà infatti, anche in futuro, che si sia lasciato andare a fondo con le braccia incrociate e abbia tentato di rimanere immobile sul fondale.

Inno alla Bellezza Intellettuale e Monte Bianco

Molto importanti per Shelley sono le gite sulle Alpi: la visione del Monte Bianco gli ispira due tra le sue poesie più belle, di altissima spiritualità, l’Inno alla Bellezza Intellettuale, Hymn to Intellectual Beauty, e Monte Bianco, Mont Blanc.
Le due poesie nascono entrambe dalla contemplazione del Monte Bianco, della sua bellezza che sconvolge e atterrisce: nella prima la Bellezza (“intellettuale” sta per “universale”) è un invincibile potere che fa sentire gli uomini capaci di opere buone e morali

La terribile ombra di un invisibile Potere fluttua,
benché invisibile in mezzo a noi….
Spirito di BELLEZZA che consacri
con le tue tinte ogni pensiero o forma umana
sopra cui splendi – dove sei fuggito?…
Soltanto la tua luce – come foschia sopra montagne spinta,
o musica dal vento della notte
mandata per le corde d’immobile strumento,
o luce della luna su un fiume a mezzanotte,
dà grazia e verità all’inquieto sogno della vita….
… SPIRITO bello, i tuoi incanti impegnano
a temere se stesso e amare tutti gli uomini.

Mentre in Mont Blanc il potere della natura appare vertiginosamente incomprensibile, disumano nella sua bellezza

Lontano, in alto, trafiggendo l’infinito cielo
Il Monte Bianco appare, calmo, innevato e sereno,
le montagne sue suddite le loro immani forme
gli accumulano intorno, ghiaccio e roccia; in mezzo larghe valli
di fiumi congelati, profondità insondabili,
azzurre come il cielo sovrastante, che si spandono
e serpeggiano fra gli assiepati dirupi;
un deserto popolato solo di tempeste….
Il potere è lassù,
l’immoto e solenne potere di molte viste
e molti suoni, e tanta vita e morte.

Ma, e qui compare un interrogativo che attraverserà tutta l’opera shelleyana

E che saresti tu, e la terra, le stelle e il mare,
se per l’immaginare della mente umana
silenzio e solitudine fossero un’entità vana?

In tante delle successive poesie di Shelley, da Alastor alla Maga di Atlante al Trionfo della vita, compariranno immagini di una sublime bellezza che ammalia e fa intuire un potere sovrumano, divino, oltre la realtà, seguite poi dalla domanda, sempre senza risposta: tanta bellezza esiste veramente o è una illusione che gli uomini creano a se stessi per poter sopravvivere di fronte al dolore e alla morte?

Il Vampiro e Frankenstein

In una di quelle fredde serate Lord Byron indice una gara: chi scriverà il miglior racconto di fantasmi? Ci riescono solo Mary, che concepisce il suo Frankenstein, e Polidori, che scrive un breve racconto, Il Vampiro, The Vampire. Stampato nel 1819, verrà attribuito erroneamente a Byron e diventerà un best seller. Gliene sarà poi riconosciuta la paternità, ma questo non impedirà al giovane, qualche anno dopo, nel 1821, di suicidarsi con il laudano in circostanze non chiarite.

Nasce qui, tra gli Shelley e Byron, un sodalizio che durerà tutta la loro vita, reso ancora più profondo, e anche contrastato, dal fatto che Claire partorirà poi una bimba, Alba.

Che Byron chiamerà Allegra, riconoscerà legalmente e vorrà con sé, mettendo però come condizione che la madre, che lui non vorrà mai più vedere, non la incontri mai. Fatto foriero di molte sofferenze a tutti, a Claire e alla bimba per prime, ma anche a Shelley e Mary, che amano la bimba come propria.

Alla fine di agosto il soggiorno ginevrino termina: seguono alcuni mesi sereni in cui Shelley redige un testamento e ne nomina esecutori Byron e Peacock.

I suicidi di Harriet e di Fanny

Ma sono in arrivo due tragedie che capovolgeranno di nuovo la vita di Shelley e di Mary.

Un articolo dell’11 ottobre 1816 del giornale, il “Cambrian” segnala che il cadavere di una giovane donna era stato trovato in un albergo di Swansea: la giovane aveva bevuto una bottiglia di laudano, indossava un corpetto ricamato con le iniziali M.W. e portava un orologio svizzero d’oro.

È Fanny, la sorellastra di Mary. La giovane, non reggendo più di fronte alle difficoltà finanziarie di Godwin e sentendosi di peso, si accingeva a partire per l’Irlanda dove le sorelle della madre dirigevano una scuola e le avevano assicurato un impiego, quando, improvvisamente, era arrivata per lettera una smentita: come poteva la sorella di una giovane segnata dallo scandalo della fuga con Shelley pensare di insegnare in una scuola?

Godwin e Shelley sono chiamati a riconoscere il cadavere e leggono con disperazione la lettera di un essere, lei diceva, “la cui nascita fu infelice e la cui vita fu di peso”. Shelley ne ha un dolore insopportabile: l’orologino d’oro era il dono che lui e Mary le avevano portato dalla Svizzera.

Poco dopo, il 15 dicembre, viene rinvenuto, gonfio d’acqua e per una gravidanza, il corpo di Harriet Westbrook nel Serpentine di Hyde Park a Londra, a circa sei settimane dalla morte. Altro colpo tremendo per Shelley che cerca invano di giustificare a se stesso le proprie responsabilità.

Poco dopo Percy e Mary si sposano, ma questo non placa le polemiche, in pubblico e in famiglia: i Westbrook intentano una causa contro Shelley.

Il 1817 si apre con la nascita della figlia di Claire e Byron, Allegra, mentre il Tribunale di Londra toglie a Shelley la patria potestà sui figli avuti da Harriet e li affida a genitori adottivi (sir Timothy e Eliza Westbrook). Invano Shelley si difende: ne ha un grande dolore e scrive una terribile invettiva contro il giudice Lord Eldon Al Lord Cancelliere, To the Lord Chancellor che, tra i capi d’imputazione, aveva accolto La Regina Mab come prova evidente della blasfemia di Shelley contro il Cristianesimo e Dio stesso in quanto vi negava la verità del Cristianesimo e l’esistenza di un Dio creatore dell’universo.

Marlow, Laon e Cythna

Nel mese di marzo si spostano a Marlow, vicino a Londra, e qui Shelley trascorre, nonostante tutto, alcuni tra i mesi più sereni della sua vita.

Affitta Albion House, una casa che, scrive, ti si avvinghia addosso coi suoi rampicanti che entrano dalle finestre, le luci radenti, i muschi in cucina. Troppo umida, quasi inabitabile, ma viva, amorevole. Ottiene un buon contratto editoriale, presso Lackington Allen & Co. per il Frankenstein che Mary sta ultimando e, tra mille letture, assiste i bimbi delle merlettaie e i più poveri della zona contraendo un’oftalmia.

Compone in sei mesi il poema Laon e Cythna in cui narra la storia dei due giovani amanti, fratello e sorella, che volontariamente scelgono il martirio per non tradire i loro ideali morali, e la pacifica e incruenta Rivoluzione che insieme avevano saputo attuare.

Il poema affronta quello che, secondo Shelley, era il tema maestro del tempo, la Rivoluzione Francese, e cioè la speranza tradita di una graduale eliminazione delle istituzioni politiche più disumane e di tutte le oppressioni perpetrate sotto il sole. Scriveva nella Prefazione: “tutti gli animi ne furono conquistati; e le nature più belle e generose vi parteciparono con maggiore entusiasmo”. Ma alla speranza era succeduta, con le atrocità del Terrore, le guerre napoleoniche e la Restaurazione, l’età della disperazione, the age of despair.

Per lui rivoluzione significava trionfo della fratellanza: nel poema Laon (Shelley stesso) sacrifica la sua vita, rendendo quindi sacra la sua fede nell’uomo, e Cythna (Mary), che ne condivide passioni e ideali, sceglie di morire accanto a lui, nel rogo (e qui Shelley immagina la propria morte per fuoco) che tiranni e sacerdoti hanno eretto nel nome dello Stato e di Dio. Passano così dal martirio al Paradiso Terrestre e di qui al Tempio dello Spirito e all’Immortalità.

Shelley dedica il poema a Mary, chiamandola “figlia dell’amore e della luce”. La dedica è piena d’amore: il loro incontro viene presentato come inscritto in un decorso cosmico:

Tu Amica, la cui presenza giunse
nel mio cuore invernale come
una primavera luminosa
su una pianura inaridita;
com’eri bella e calma e libera
nella tua giovanile saggezza
quando osasti rompere la catena
mortale delle convenzioni sociali
e te ne venisti avanti libera
come fra le nuvole la luce
invano emanata a moltitudini di schiavi
invidiosi nel loro carcere oscuro,
e dalla sofferenza che l’aveva
per così lungo tempo circondato
il mio spirito balzò ad incontrarti.

Mary è presentata come l’incarnazione, attraverso i suoi genitori, della luce, dell’amore e della verità

Dicono che tu fossi amabile fin dalla nascita,
Di illustri genitori tu degna figlia.
Non mi meraviglio – che allora lasciò questa terra Una
La cui vita fu come un dolce pianeta che tramonta
e ti avvolse nella radiosità purissima
Della sua gloria morente; ancora la sua fama
Risplende su di te, nelle tempeste furibonde e oscure
Che scuotono questi giorni; e da tuo Padre
Ti spetta di diritto e ti protegge un nome immortale.

Shelley sentiva la grandezza di Mary, ma temeva che sarebbe rimasta a lungo incompresa, che il destino di paria sarebbe per lei continuato

E tu, chi sei? Lo so, ma non oso dirlo:
può svelarlo il Tempo ai suoi silenti anni.

E fu profeta, perché Mary, famosa in vita ma dimenticata subito dopo la morte, sarebbe stata scoperta, in tutto il suo valore, solo due secoli dopo, dagli studi del movimento delle donne, gli Women Studies. Per lo scandalo suscitato, l’editore Charles Ollier, loro fedele amico, deve subito ritirare il romanzo dalla circolazione e rieditarlo senza più incesto e con attacchi ridotti alla religione. E muta il titolo in La Rivolta dell’Islam, Poema in dodici canti, The Revolt of Islam, a Poem in Twelve Cantos.

Il 2 settembre nasce Clara Everina, la loro terza figlia, che, insieme a William e Allegra, renderanno la casa piena di giochi e gioia. Esce, a novembre, stampato da Hookham e Ollier, la Storia di un viaggio di sei settimane attraverso parte della Francia, della Svizzera e dell’Olanda, con lettere che descrivono una veleggiata sul lago di Ginevra, e i ghiacciai di Chamonix, History of a Six Week’s Tour che comprende la prima parte scritta a quattro mani da Shelley e Mary e poi proseguita da Mary soltanto, con l’aggiunta di quattro lettere, che descrivono il soggiorno sul lago di Ginevra del 1816, le traversate in barca, e la, per loro indimenticabile, gita a Chamonix sul Monte Bianco, di cui Shelley scoprì, come si è detto, la “vertiginosa” bellezza e che ispirerà anche le visioni dei monti nel Prometeo Liberato.

Negli ultimi mesi dell’anno Shelley si dà a gare poetiche, con Horace Smith, Keats e Hunt, scrivendo i sonetti Ozymandias e To the Nile; abbozza poemi e saggi, frequenta circoli letterari e artistici, ma accusa un peggioramento nelle sue condizioni di salute ed è perseguitato dal timore che il Tribunale di Londra gli tolga la patria potestà anche sui figli avuti da Mary. La sua salute è in pericolo: acutissimi spasmi in un fianco, male ai polmoni. Il medico consiglia il clima italiano.

Prende quindi la decisione davvero fatale di lasciare l’Inghilterra e di partire per l’Italia.

La fuga e l’esilio in Italia

Il 1818 inizia all’insegna dei preparativi, dell’addio agli amici e alla vita culturale, ai musei e ai teatri di Londra. L’ultimo giorno lo passano con gli amici carissimi, Marianne e Leigh Hunt; la sera danno l’addio a Godwin e poi vanno a teatro a vedere Il barbiere di Siviglia di Rossini.

L’11 marzo partono per Dover con i loro bimbi, William di due anni, Allegra di uno e Clara di sei mesi, la governante Elisa Duvillard e la cameriera Milly Shields. Mary ha 20 anni, Percy 25, Claire 19. Attraversano la Francia ancora devastata dalla guerra su due carrozze stipate di bagagli e un baule di libri e quando si avvicinano all’Italia prendono con sé una guida per la traversata delle Alpi. Il 26 iniziano cantando l’ascesa des Echelles in Savoia, tra cumuli di neve e ghiaccio su strade scavate in precipizi di rocce, tanto ripidi e alti da impedire la vista del cielo. Alla frontiera tra la Francia e la Savoia la censura del Regno di Sardegna visiona il baule dei libri e proibisce l’entrata di quelli di Voltaire e di Rousseau che vengono bruciati.

Con un rogo alle spalle affrontano quindi il Moncenisio e arrivano in Italia, a Susa, il 30 marzo, benedicendo Napoleone che aveva fatto costruire la strada. L’Arco di Trionfo di Augusto li riceve insieme a una bimba che offre loro un mazzolino di viole: “L’Italia, con la dolcezza della terra e la serenità del cielo” scrive Shelley a Peacock “terra di cieli blu e di campi ameni, con le terre coltivate, i contadini che lavorano con buoi bianchi dagli occhi mansueti, più civilizzata della Francia e con un pane inimitabile” scrive Mary agli Hunts, appare subito un paradiso.

Leggono a voce alta le Lezioni sull’arte drammatica e la letteratura di August Schlegel, che saranno importanti per le loro traduzioni dal greco e dal latino e substrato di tante loro opere. Leggono le opere di Madame de Staël e quelle di Sismonde de Sismondi, lo storico che l’aveva accompagnata nel suo viaggio in Italia, cui faranno poi riferimento, soprattutto Mary, per il suo romanzo Valperga. Passano per Torino e ai primi di aprile sono a Milano

Milano e le coreografie di Salvatore Viganò

La città, che era stata capitale del Regno d’Italia sotto Napoleone, è ora tornata sotto il dominio degli Asburgo, ma conserva intatto il suo fascino cosmopolita: è ricca di monumenti, teatri e cultura. Vi risiedono Vincenzo Monti, Silvio Pellico, Stendhal che si sentiva milanese, riuniti nel salotto di Ludovico di Breme, in un continuo dibattito di idee sul Romanticismo e sul Classicismo cui parteciperanno anche Lord Byron e Polidori.

L’impatto con l’Italia è singolare: da un lato la bellezza dei monumenti e un passato glorioso sono fonte di ammirazione continua, ma la realtà i costumi “degli Italiani di adesso, il loro lavoro e modo di essere, sono degradati al massimo, disgustosi e odiosi” scrive Shelley a Leigh Hunt. Questo apprezzamento negativo dell’Italia, che pensano sarebbe perfetta senza gli Italiani, rimarrà a lungo negli Shelley, finché, di fronte all’eroismo dei moti carbonari, cambieranno opinione. Addirittura Shelley ricorderà poi le eroiche gesta medievali dei milanesi e della lega lombarda in due poesie, l’Ode a Napoli, Ode to Naples e Hellas, scritte entrambe in occasione dei moti rivoluzionari a Napoli e in Grecia.

L’arrivo di “Selley” nella città il 4 aprile è segnalato su “La Gazzetta di Milano”, il giornale ufficiale degli Asburgo, che ne annoterà anche la partenza per Pisa il 3 maggio. Abitano nel famoso Albergo Reale, probabilmente vicino al Duomo, ma di cui oggi non si riesce a stabilire con esattezza l’ubicazione, dove erano passati la Principessa Carolina di Brunswick e il pittore William Turner.

Il mese milanese si rivelerà per loro di importanza fondamentale: frequentano il grande teatro aristocratico italiano, per primo la Scala, dove si recano più volte, e poi il Carcano, la Canobbiana e il Re, tutti luoghi anche di ritrovo e vita mondana, di balli e gioco d’azzardo. Visitano tutta una serie di teatri popolari periferici anche all’aperto, passeggiano nei giardini e lungo il Corso, l’attuale Corso Venezia. Entrano in amicizia col tenore Mombelli, famoso per aver cantato per Gioacchino Rossini nel Demetrio e Polibio al San Carlo di Napoli e scoprono l’eccellenza dei balletti alla Scala, con coreografie piene di colori e musiche, in particolare quelli di Salvatore Viganò, nipote di Luigi Boccherini, danzatore e coreografo, che aveva collaborato con Beethoven al balletto Le creature di Prometeo.

Presenziano ai suoi La Spada di Kenneth, in cui si esibisce una famosa e bella ballerina, al tragico Otello ossia il moro di Venezia e soprattutto al Prometeo, che Shelley entusiasta ricorderà scrivendo il suo Prometeo Liberato. Vanno anche al teatro dei Marionetti, come scrive Claire nel suo diario, il Teatro Fiando -poi detto Gerolamo dalla marionetta milanese allora molto popolare – in cui danza e musica accompagnavano connotazioni politiche di critica e irrisione, sulla scia della commedia dell’arte, che gli austriaci non capivano grazie all’uso del dialetto piemontese. avrebbero poi partecipato ai moti rivoluzionari del ’48.

Dal 9 al 12 aprile Shelley e Mary vanno sul Lago di Como, lasciando i bimbi a Milano con Claire che vive quei momenti con gioia ma anche con l’angoscia di doversi separare da Allegra che, è deciso, dovrà raggiungere il padre a Venezia. Sperano di affittare la bellissima Villa Pliniana famosa per la descrizione di Plinio il Giovane e attraversano più volte il lago in battello rimanendo abbagliati dalla dolcezza del clima e del paesaggio: “niente può essere più divino delle spiagge di questo amabile lago” scrive Mary nei suoi diari. Shelley è felice come un ragazzo: prova a sparare con la sua pistola in un luogo appartato, ma viene subito arrestato da due poliziotti e il gentilissimo prefetto restituisce l’arma solo dopo che Madame Shelley certifica per scritto che il marito non voleva spararsi in testa.

Ricorderanno poi sempre la dolcezza del lago: Shelley vi ambienterà il suo poemetto Rosalind and Hellen e Mary ne parlerà in molti passi dei suoi racconti e saggi, soprattutto nel romanzo The Last Man del 1826 e nella versione del Frankenstein del 1831. E avrà la gioia di ritornarvi, ben tre volte, nel 1840, 42 e 43, con il figlio, dopo la morte di Shelley, vivendo momenti di alta spiritualità e pacificazione.

Hanno intenzione di raggiungere Byron, anche lui in esilio in Italia e allora a Venezia, per affrontare la questione di Allegra che il 28 aprile lo raggiunge accompagnata da Elisa. Sperano sempre di farlo recedere dalla decisione di assumerne l’educazione a condizione che la bimba venga separata dalla madre; credono di possedere le chiavi del cuore del loro amico, Albè – come lo chiamano scherzosamente perché si era fatto ritrarre in costume albanese – con cui sanno di avere più di un sodalizio, quasi un legame di sangue, ma non riusciranno mai a fargli cambiare intenti.

Lasciano quindi Milano il 3 di maggio e riprendono il viaggio, sempre leggendo senza sosta e sempre visitando musei e monumenti: Piacenza, Parma, Modena, Bologna, il valico degli Appennini, la Valle dell’Arno, Pisa (da cui scappano non reggendo la vista dei forzati che lavorano incatenati), e, il 9 di maggio, Livorno.

Livorno e i Gisborne. Sull'Amore
Venezia e Napoli

Sull’ Amore

E qui finalmente si fermano avendo trovato un’amicizia che li riporta sentimentalmente a casa. Ritrovano Maria e John Gisborne: lei cosmopolita, allieva a Roma di Angelica Kauffmann, amica da sempre di Godwin, di cui scrisse poi una biografia; lui che alleva patate nei vasi, li introduce all’agricoltura e dà a Mary un manoscritto secentesco sul processo di Beatrice Cenci che lei traduce e che sarà la fonte della tragedia che l’anno dopo Shelley scriverà.

Un mese di sosta e poi a Bagni di Lucca in Villa Bertini, la loro prima casa, piccola ma con giardino, di fronte agli Appennini. Silenzi e aria rigenerante, bagni nelle acque delle polle tra le rocce (Shelley nudo), cavalcate nelle luci della sera che ammaliano, lettura di Ariosto: Mary pensa di riprendere le opere della madre, legge la Mirra di Alfieri e se ne innamora, vorrebbe tradurla; Shelley traduce il Simposio di Platone che sarà considerata una delle più interessanti traduzioni in inglese: farà poi molte altre traduzioni dal greco, dal latino, e poi dall’italiano, dal francese, dal tedesco e dallo spagnolo.

Scrive saggi tra cui l’importante Sull’amore, On Love, in cui sostiene che l’Amore “è quella forza potente che ci attrae verso tutto quello che concepiamo, temiamo o speriamo fuori di noi stessi, quando scopriamo nei nostri pensieri l’abisso di un insaziabile vuoto e cerchiamo di risvegliare in tutte le cose che esistono una consonanza con quello che proviamo dentro di noi….è il legame e il consenso che unisce un essere umano non solo a un altro essere umano, ma a tutte le cose viventi”. C’è in ogni persona, scrive, un’anima nell’anima “uno specchio la cui superficie riflette solo le forme pure e brillanti” e cerca l’incontro con una creatura che vibri all’unisono; l’amore fa uscire da se stessi verso l’armonia universale e gli ideali; senza di esso “l’uomo diventa il sepolcro vivente di se stesso”. Questa concezione dell’amore ricorrerà poi, in varie forme e immagini, in tutte le opere successive.

Ad agosto Shelley parte con Claire per Venezia, conosce l’ambasciatore Richard Hoppner e sua moglie Isabella, grandi amici di Byron, e ottiene la concessione che Claire possa vedere Allegra nella Villa “I Cappuccini”, a Este, che il Lord ha affittato dagli Hoppner e che gli mette a disposizione. Shelley, di fronte alla pianura veneta che si spalanca di fronte davanti, per evitare ripetizione al terrazzo della villa, scrive intensamente: inizia il Prometeo Liberato, le poesie Julian and Maddalo, descrizione di una lunga conversazione a cavallo lungo il lido di Venezia tra lui e Byron, e Versi scritti tra i Colli Euganei, Lines Written among the Euganean Hills, dove compare il tema della grandezza perduta dell’Italia a causa degli italiani stessi.

Venezia

Shelley scrive a Mary ingiungendole quasi di raggiungerlo: Mary, a Bagni di Lucca, al capezzale di Clara malata, procrastina; la bimba non sta bene, ma alla fine cede. A Padova non ci sono dottori adeguati: il viaggio verso Venezia alla ricerca di un medico, nel calore e nella polvere dell’estate, risulta fatale. Il 24 settembre Mary scrive, “Questo è il diario della sventura. Andiamo a Venezia con la mia povera Clara che muore appena arriviamo”. William si ammala: la separazione della sorella è troppo dolorosa anche per lui. Si fermano a Venezia, che giudicano sporca e maleodorante, mentre i Veneziani sono “italiani della peggior specie”: li consola la vicinanza degli Hoppner cui Byron affiderà Allegra alla fine di ottobre, dopo i due mesi quasi trascorsi a Este con la madre che non rivedrà più.

Coi primi di novembre sono di nuovo in viaggio. Rovigo, Ferrara, Bologna, musei chiese e biblioteche, Rimini, Pesaro, Fano, Perugia, valico degli Appennini, Fossombrone, il Metauro, Foligno, Spoleto, il Clitumno e le sue fonti, Terni. Sfidano il pericolo della malaria, “quella foschia della maremma che brilla con sfumature rosate sotto il sole, che la crea e la adorna per distruggerti” scrive Mary e dopo 20 giorni sono a Roma.

Napoli

Roma: di nuovo estasi di conoscenza. Ma dopo dieci giorni via, a Napoli, dove sostano quasi quattro mesi di escursioni e letture, scandagliando il territorio fino alle solfatare, al Vesuvio, a Pompei, che Shelley descrive entusiasta agli amici in Inghilterra. La grotta della Sibilla suscita in Mary echi della figura materna, tanto che riprende la lettura di Corinne ou de l’Italie di Mme de Staël, già letto a Londra nel 1815, nella cui protagonista aveva intravisto Mary Wollstonecraft. E riprende a leggere l’ Histoire des Republiques italiennes du Moyen-age, Storia delle Repubbliche italiane nel Medio Evo di Simonde de Sismondi che sarà una delle fonti storiche per il romanzo che pensa di scrivere su Castruccio. Scoppia però “un tremendo scompiglio”, a most tremendous fuss, di cui è difficile venire a capo, ma che comporta la nascita di una misteriosa bimba, Maria Adelaide, da Shelley registrata all’anagrafe come figlia sua e di Mary, mentre il fatto non risponde a verità. L’unica certezza è che la bimba viene lasciata prima in un ospedale e poi presso una famiglia, e morirà tre mesi dopo senza che gli Shelley l’abbiano più rivista. I pettegolezzi di Elisa e del servitore Paolo Foggi (che poi si sposeranno) sostenevano che la madre fosse Claire, altri insinuavano che fosse Elisa stessa. Non è neppure certo che il padre fosse Shelley. In ogni caso se ne fece un gran parlare e scrivere con Byron e con gli Hoppner e l’amicizia con questi ultimi quasi si ruppe.

Roma: I Cenci

Il 28 febbraio 1819 partono di nuovo e sono di nuovo a Roma, davanti alle sue meraviglie: la settimana santa, le messe del Papa, la lavanda dei piedi, la venuta dell’imperatore il cui corteo si fa largo tra la folla a colpi di spada sguainata, lezioni di disegno per Mary, posa per i ritratti che Amelia Curran, figlia di un avvocato conosciuto da Shelley a Dublino, esegue di tutti loro; passeggiate con William nei giardini dei palazzi, statue e quadri. Abitano prima in Palazzo Verospi, in via del Corso, poi si trasferiscono a Trinità dei Monti vicino ad Amelia Curran. Shelley continua a scrivere il Prometeo e va alla ricerca dei palazzi dove Beatrice Cenci è vissuta.

Da quando avevano ricevuto a Livorno il manoscritto secentesco sulla sua vicenda, Shelley e Mary si erano incitati reciprocamente per un anno a scriverne una tragedia. A Roma, dopo averne visitato i luoghi e visto nel Palazzo Colonna il suo ritratto (allora attribuito a Guido Reni) Shelley si decide infine a scriverne.

La sua identificazione con Beatrice è tale, che prega l’amica pittrice Amalia Curran di eseguire un suo ritratto facendo quasi coincidere il suo viso con quello della giovane incarcerata.

Nella tragedia presenta Beatrice come vittima del potere e della violenza del padre, del papa e dei giudici, intaccata dal male, ma ribelle fino alla fine, come sentiva di essere lui stesso. Scrive anche una prefazione molto significativa sul fine della tragedia che induce a entrare nei lati più oscuri e nascosti del cuore umano per prenderne coscienza. Prediligerà sempre questa tra tutte le sue opere.

Mary scopre l’abnegazione dei Gesuiti che curano i poveri anche nei quartieri più sperduti e si riconcilia con la Chiesa Cattolica.

Ma un nuovo insopportabile lutto li travolge: la morte del piccolo William. Invano il medico aveva avvertito: il clima troppo caldo è un pericolo per il bimbo. L’avvertimento non era stato accolto in tempo. William si ammala di malaria e in dieci giorni di sofferenze se ne va, il 7 giugno, a distanza di nove mesi dalla morte della sorellina Clara, e viene quindi sepolto nel Cimitero degli Inglesi.

Sia Shelley che Mary cadono in uno stato di profonda depressione, soprattutto lei, che si chiude in un mutismo tale da far pensare che possa incorrere nel suicidio (come era accaduto alla madre, allora salvata dall’amore di Godwin, e poi alla sorella Fanny che nessuno però aveva potuto fermare).

I demoni che hanno presieduto alla sua infanzia risalgono dalle profondità in cui erano annidati e la annientano. Il silenzio diventa la cifra di Mary.

Shelley, disperato a sua volta, le scrive:

Mia carissima Mary, dove sei andata,
perché mi hai lasciato solo in questo tetro mondo?
La tua forma è qui, è vero, bellissima
ma tu sei fuggita – giù per la oscura strada
che porta alla cupa dimora del Dolore…
… dove per il tuo bene io non posso seguirti.
Ritorna, per il mio …
Il mondo è triste, e io sono stanco di andare avanti senza di te. Mary;
c’era una gioia prima nella tua voce e nel tuo sorriso,
ed è svanita, e anch’io dovrei essere via, Mary.

Il padre le scrive lettere durissime da Londra senza tentare di confortarla, accusandola di compiacersi del dolore e incitandola a reagire lavorando.

Mathilda di Mary Shelley

Shelley, confidando che la presenza materna di Maria Gisborne le sia di conforto, cerca una casa a Livorno e affitta la Villa Sansovano. Le dedica versi disperati di amore e di abbandono e la poesia Una visione del mare, A Vision of the Sea, in cui descrive se stesso che, in alto di fronte al mare, alle spalle di Mary, la vede mentre fissa l’orizzonte e viene invasa dal terrore alla comparsa sulle acque di due nere trombe marine che avanzano verso una nave. Sulla nave, tra i passeggeri, una donna stringe al petto il suo bambino che aveva sorriso al mare. È Mary la donna che affonda e da lontano vede se stessa inabissarsi col suo bimbo e Shelley, come in un gioco di specchi, assiste impotente.

L’amicizia dei Gisborne si rivela sempre più importante e positiva.

Una nuova gravidanza porta forza a Mary che ricorda il racconto di sua madre, Cave of Fancy, La grotta della Fantasia, in cui un vecchio spiega a una bimba come funziona la nostra psiche, luogo interiore dove la coscienza, un gigante armato di bastone, impedisce alle passioni e ai mostri del profondo di emergere e sconfigge il male. Vorrebbe riprenderlo, titolarlo Campi della Fantasia, Fields of Fancy, e, finalmente, nell’agosto comincia a scrivere. Ma la cornice materna poco a poco scompare, e prende corpo un racconto, Mathilda, che si rivela essere un’introspezione dura e amara dal valore quasi terapeutico.

È la storia di un incesto (non consumato) tra un padre buono e una figlia, entrambi proiezioni speculari di Godwin e di lei stessa, presentata come reincarnazione fisica e intellettuale della madre morta di parto che il padre non può non amare come la compagna ritrovata della sua vita. Presa coscienza di questo amore incestuoso, attraverso la parola, cioè una appena pronunciata confessione verbale, il padre si uccide e lei si lascia morire di inedia.

Godwin, ricevuto il manoscritto, lo giudica disgusting e lo getta in un cassetto da cui sarà poi estratto più di un secolo dopo, nel 1959, da Elizabeth Nitchie.

L’opera in realtà, pur partendo dai fatti personali, come Mary Wollstonecraft aveva prescritto alle donne affinché il mondo conoscesse le loro sofferenze, è in realtà una denuncia della situazione delle donne prigioniere del potere patriarcale e del padre cui non sono in grado di ribellarsi, intaccate da un amore sincero, ma nei fatti omicida.

Mary scrive anche due drammi mitologici cui collabora anche Shelley con splendide poesie: Proserpina, Proserpine, in cui riprende il tema che era già stato di sua madre, Mary Wollstonecraft, di una comunità femminile che si contrappone alla violenza patriarcale, e in cui ricorre il grido di Proserpina rapita che alla fine potrà riabbracciare la madre, Cara madre, non lasciarmi, Dear mother, don’t leave me not: e Mida, Midas che è una trasposizione allegorica dell’ingordigia affaristica dell’Inghilterra.

Prometeo Liberato

Shelley termina il Prometeo Liberato, dramma lirico in quattro atti, Prometheus Unbound, A Lyrical Drama in Four Acts, cui ha lavorato, a fasi alterne, per circa due anni e che Ollier pubblicherà immediatamente. Riprende il tema della tragedia Prometeo incatenato che Eschilo aveva messo in scena ad Atene nel 460 avanti Cristo, esponendo il corpo reale di un Dio torturato atrocemente per avere amato gli uomini e creando quindi una intensa percezione fisica-identificazione tra attori e pubblico.

La vicenda è nota: Prometeo ruba il fuoco a Zeus per darlo agli umani che ha visto privi di mezzi di sussistenza in un mondo feroce affinché possano riscaldarsi, difendersi, avere luce nel buio e anche elevarsi spiritualmente. E, di rimando, Zeus punisce atrocemente lui, ma anche gli uomini, mandando a loro il male e tutte le sofferenze, che da allora li attanagliano. In versi e figure considerati sublimi e insuperati, Eschilo affronta i temi dei rapporti uomo-Dio e uomo-natura, del male e del dolore, della colpa e dell’espiazione e soprattutto quello della ribellione assoluta all’arbitrio del più potente degli Dei, nel segno del Fuoco, motore primigenio della vita, dell’amore, e della pietà, che induce al sacrificio di sé per amore degli altri. L’aspetto della ribellione a Dio si era accentuato fino alla blasfemia negli anni della Rivoluzione francese e di Napoleone: da Goethe, che ne ha dato una straordinaria versione nel suo Prometeo, a Byron, che ha voluto addirittura presentarsi come una personificazione prometeica nel dramma Manfred: sentimenti che furono fonte di ispirazione anche per i musicisti, da Hugo Wolf a Beethoven e Wagner, da Cajkosvskij a Schumann e De Falla, per citarne solo alcuni. Ma Shelley si differenzia da loro per una rivisitazione quasi profetica del mito in un’ottica di assoluta pacificazione e nel segno di un lirismo immaginifico in parte derivato dalle ricordate coreografie di Viganò. Immagina che il titano perdoni Zeus e che il suo perdono liberi non solo gli uomini dalla volontà di vendetta, causa di tutti i loro mali, ma anche l’universo intero dal dolore e dalla morte. E che finalmente tutti gli elementi danzino nella gioia.

“Secondo la particolare teoria di Shelley sul destino della specie umana – avrebbe scritto Mary nel 1839 – il male non era intrinseco al sistema della natura, ma un accidente che poteva essere eliminato… era convinto che bastasse solo che l’umanità volesse che non ci fosse il male e il male avrebbe cessato di esistere”.

Shelley termina anche I Cenci e ne fa stampare 259 copie a Livorno presso la tipografia Masi per conto dell’editore Ollier, nella speranza che venga rappresentata al Covent Garden a Londra. Rappresentazione che sarebbe avvenuta invece dopo la sua morte, nel 1886, ad opera della Shelley Society, nel teatro di Islington, presenti 2000 persone, tra cui Oscar Wilde, Bernard Show, Robert Browning, Eleanor Marx e tutti i più importanti intellettuali e artisti del momento

La mascherata dell’Anarchia e Ode al vento di Ponente

Nell’ agosto del 1819 a Peterloo, Manchester, in Inghilterra, dei soldati ubriachi sparano sulla folla inerme che chiede una riforma parlamentare. Shelley, saputo dell’accaduto, scrive con dolore e indignazione il poemetto, La mascherata dell’Anarchia, The Mask of Anarchy, in cui, scagliandosi contro il governo e i suoi ministri, Robert Castlereagh per primo, invita il popolo a ribellarsi senza usare le armi, sconfiggendo con la forza morale quella bruta dei soldati. Questa poesia, come L’Inghilterra nel 1819, England in 1819, la Canzone agli uomini d’Inghilterra, Song to the Men of England, e quelle che scriverà in occasione dei moti rivoluzionari, costituiscono un importante nucleo di poesie civili, in cui Shelley esprime il suo credo politico e riformatore. Sono un inno alla libertà e alla solidarietà, una condanna di ogni forma di violenza e prevaricazione sui più deboli. È poi accaduto che Gandhi abbia concepito la non-violenza a Londra leggendo proprio questi versi di Shelley e Berthold Brecht li abbia citati in una sua poesia.

Ode al Vento di Ponente

Nell’aprile del 1819 esce sulla rivista “The Quarterly Review” un terribile attacco contro Shelley accusato di empietà, blasfemia, egoismo e di essere un ingannatore destinato a perire travolto dall’Oceano come il faraone che inseguiva gli Ebrei nel Mar Rosso: una terribile profezia, cui lui reagisce scrivendo la satira Peter Bell Terzo, Peter Bell The Third, il saggio satirico Il Diavolo, On the Devil, , e una delle più belle poesie della letteratura di tuti i tempi, L’Ode al Vento di Ponente, Ode to the West Wind, che è un atto di fede, una preghiera di speranza per la natura, per il mondo, per chi soffre. Questi i versi finali dedicato al vento che crea e distrugge, nell’eterno ciclo della vita:

Oh tu Vento selvaggio di ponente, respiro
della vita d’Autunno, oh presenza invisibile da cui
le foglie morte sono trascinate, come spettri in fuga
da un mago incantatore, gialle e nere,
pallide e con i rossori della febbre, moltitudini
colpite dal contagio: Oh tu che guidi
i semi alati ai loro letti oscuri
in cui giacciono freddi e profondi nell’inverno
come una spoglia sepolta nella tomba… ..
… oh Spirito selvaggio, che soffi ovunque,
distruggi e conservi; ascolta, oh, ascolta!

Fa di me la tua cetra, come la foresta:
che cosa importa se le mie foglie
cadono come le sue! Il tumulto
delle tue potenti armonie porterà a entrambi un canto
profondo e dolce nella tristezza dell’autunno.
Che tu sia il mio spirito, o Spirito feroce!
Sii me stesso Spirito impetuoso!
Guida i miei morti pensieri per tutto l’universo
come foglie appassite per darmi una nascita nuova!
E con l’incanto di questi miei versi disperdi,
come le faville e le ceneri da un focolare
non ancora spento, le mie parole fra gi uomini!
E per la terra che dorme, attraverso il mio labbro,
sii la tromba di una profezia! Oh, Vento,
se viene l’Inverno, potrà la Primavera esser lontana?

Il 12 novembre 1819 nasce Percy Florence e la vita riprende per tutti loro.

Pisa, La Nuvola e A Un'Allodola

Alla fine di gennaio del 1820 gli Shelley si trasferiscono a Pisa in casa Frassi sul Lungarno con Percy Florence di due mesi appena.

La dolcezza del clima che entra dalle finestre spalancate sull’Arno (abitano in Casa Frassi, in Palazzo Galletti e poi in casa Aulla), la gentilezza degli abitanti e soprattutto il calore dell’amicizia che inaspettatamente vi trovano, si rivelano una cura per entrambi.

Un primo grande amico, il medico Andrea Vaccà Berlinghieri, l’unico ad aver capito la natura psichica dei dolori fisici di Shelley, li introduce nei circoli intellettuali italiani, finalmente non ostili. A Pisa ci sono molti inglesi, tutti esiliati come loro, per ragioni politiche o sociali. Si ritrovano tutti insieme per passeggiate o cene o discussioni. I passi si muovono tra mura e dimore accoglienti, e la città non è più un deserto nemico. Shelley scrive a Thomas Medwin, invitandolo a raggiungerlo “L’Italia è il paradiso degli esuli, il rifugio dei paria, Italy is the Paradise of exiles….the retrait of Pariahs”.

A Pisa Mary trova un grande affetto, Lady Margaret King Mountcashel che era fuggita dall’Irlanda con George William Tighe abbandonando il marito e ben otto figli! e si faceva quindi chiamare Mrs Mason. E quello era il nome della protagonista delle Storie di vita vera, Original Stories From Real Life, scritte da Mary Wollstonecraft che era stata istitutrice di Lady Mountcashel in Irlanda quando questa era bambina. Un’allieva ammiratrice della grande Mary Wolstonecraft a Pisa! Lei stessa autrice di un libro sull’educazione dei bambini, Racconti del vecchio Daniel, Stories of old Daniel, che era stato edito da Godwin e che ebbe ben quaranta edizioni, e fondatrice dell’Accademia dei Lunatici attraverso cui passava il mondo intellettuale e rivoluzionario del momento, da Giuseppe Giusti, Francesco Guerrazzi, Bartolomeo e Tommaso Cini… a Giacomo Leopardi. Di fronte a lei Mary si sente piccola in tutti i sensi, torna bambina… le si dà come a una madre e ama le sue figlie, Lauretta e Nerina. Per Lauretta, scrive il racconto Maurice che nel bicentenario della sua nascita, nel 1997, è stato trovato manoscritto e inedito a San Marcello Pistoiese, nella Casa Cini, dove Lauretta era andata a vivere dopo il matrimonio con Bartolomeo Cini.

A Pisa Claire, con gioia di Mary, viene poco: viaggia, cerca di mantenersi, di resistere lontano da quegli intellettuali che l’avevano sempre oscurata e giudicata una sciocca; forse parla proprio di questo nel perduto racconto L’idiota, The Idiot che affronta il tema del potere del giudizio negativo della famiglia sull’intelligenza. Aveva scritto anche a Napoli un racconto, bello e allegro, pieno di intrighi e colori e gioia di vivere, Il Polacco, The Pole. Avrebbe passato la vita viaggiando e fu anche a Mosca e a San Pietroburgo, facendo l’istitutrice, sorvegliata come rivoluzionaria al punto che a Vienna la polizia di Metternich non le concesse la licenza per insegnare. Visse molto a lungo, più di tutti gli altri, e soprattutto a Firenze. Prima di morire nel 1897, dettò il suo epitaffio: “Trascorse la vita soffrendo, ed espiò non solo i suoi errori, ma anche le sue virtù”.

A Pisa Mary, poco a poco, ritrova la malia di Marlow, e Shelley scrive in barca perdendosi tra i canneti dell’Arno. Leggono di nuovo insieme e iniziano addirittura a tradurre Dante in inglese! Shelley scrive le famosissime poesie La Nuvola, The Cloud e A un’allodola, To the Sky-Lark che sono un inno alla gioia immortale, al canto, all’eterno flusso e mutamento della vita. Scrive anche la Lettera a Maria Gisborne, To Maria Gisborne, una lunga lettera in versi, secondo una moda che risaliva al ‘700, scritta in occasione di un viaggio in Inghilterra dei Gisborne, in cui viene descritta con affabilità e senso dell’humour la loro vita in comune, compresi gli esperimenti tecnico-scientifici del figlio Henry cui Shelley partecipava. I ricordi degli amici ritrovati in Inghilterra si alternano agli auguri di un loro veloce rientro in Italia.

Ode alla libertà. Ode a Napoli. Epipsychidion

Intanto la Spagna insorge: iniziano i moti rivoluzionari in Europa e in Italia. Shelley scrive l’Ode alla Libertà, Ode to Liberty, sull’onda dell’entusiasmo per i moti spagnoli che avevano portato anche all’abolizione dell’Inquisizione, e alla notizia dei moti di Napoli del 2 agosto 1820 scrive l’Ode a Napoli, Ode to Naples, in cui celebra i moti carbonari che, sostenuti dall’esercito rivoluzionario di Guglielmo Pepe, avevano ottenuto da Ferdinando I Borbone un governo costituzionale. Immagina e augura che tutta Italia, da Milano a Venezia a Firenze, ne segua l’esempio, rinnovando le antiche gesta di affermazione di un’identità nazionale.

Fanno tutti insieme una gita sul Monte Pellegrino, che a Mary interessa perché vuole vedere dall’alto i luoghi di Castruccio su cui sta per intraprendere un romanzo, e al ritorno Shelley scrive La Maga di Atlante, The witch of Atlas, un poemetto fantastico che non piacerà mai a Mary, sogno di un essere immortale e androgino che vive lontano dagli umani in un cielo di beatitudine, ma ama scendere e salvarli, anche dalla morte.

Arriva la notizia che Keats è molto malato e Shelley lo invita a venire suo ospite. Li raggiunge l’amico e cugino Thomas Medwin che va a stare con loro a Palazzo Galletti.

Epipsychidion
Una difesa della Poesia

Anche a Pisa c’è un gran movimento. Arriva da Ravenna Teresa Guiccioli, l’amante di Lord Byron, con i fratelli Pietro e Vincenzo Gamba e la fama di esiliata da Ravenna e di moglie ripudiata dal marito perché coinvolta negli amori e negli scandali di Byron. In realtà il conte Guiccioli, che aveva affittato nella sua tenuta a Ravenna un cottage a Byron, considerando un grande onore avere il poeta come inquilino, non poteva immaginare che il lord andasse nei boschi ad esercitarsi a sparare insieme ai carbonari e nascondesse le loro armi in casa propria, cioè nella casa del conte. Il quale, scoperta la faccenda dalla polizia austriaca… fu esiliato. Stupito, sconvolto, offeso, il vecchio conte chiese la separazione dalla moglie la quale felicemente gliela concesse e fuggì a Pisa ancor prima di Byron, sapendo che lui l’avrebbe raggiunta là.

Mary le era andata incontro e l’aveva vista sporgersi dalla carrozza, con i riccioli bruni che scendevano intorno al viso e al collo, le braccia tornite, elegante: si era sentita magra, povera, in lutto di fronte a lei. Stava per fuggire, ma Teresa l’aveva abbracciata con affetto; si era rivelata, come avrebbe scritto a Claire “una bella graziosa ragazza senza pretese, di buon cuore e amabile” e l’amicizia tra loro era diventata per Mary un alimento, una cura. Mary l’aveva accompagnata nelle sue ricche dimore, prima a Casa Finocchietti, quindi a Casa Parra sul Lungarno.

Poi il primo di novembre era arrivato Byron: quello sì che era stato uno spettacolo che aveva messo Pisa a soqquadro. C’era voluta la polizia a tenere a freno la gente mentre il Lord percorreva le vie col suo corteo di carrozze, bauli, ben ventitré, di bravi, di animali – cavalli, cani, uccelli, pavoni, persino un orso- e con la sua fama di eroe, di satanista, di carbonaro, col suo passo luciferino e lo sguardo magnetico, attraverso tutta la città, verso Palazzo Lanfranchi, dove scandali e avventure sarebbero continuati. Le donne gli buttavano fiori, alcune svenivano, l’entusiasmo per il poeta si trasformava in manifestazione politica; i gendarmi avevano avuto un bel daffare a tendere cordoni di protezione dalla folla e al tempo stesso a sorvegliare e identificare i troppi convenuti.

Tutto questo, e le vicende amorose e politiche intrecciate con i moti insurrezionali italiani ed europei, Teresa Guiccioli lo avrebbe raccontato nella sua La vie de Lord Byron en Italie, La vita di Lord Byron in Italia, in nove volumi, che scrisse, dopo la morte del poeta, a Parigi, vivendo nel culto di quella memoria ma, a differenza di Mary, da ricca donna di mondo. Shelley, che ha sofferto molto anche per una nefrite, comincia a stare meglio e quindi si avventura in nuovi amori: nella bella Teresa Viviani, diciannovenne, sofferente in un convento da tre anni, vede una vittima reclusa, e ne organizza la fuga; ma quando finalmente giunge al convento in carrozza per liberarla, lei non c’è più: se ne è andata sposa ad un altro! Shelley ne è offeso e Mary ne ride. Legge, divertita, il poemetto Epipsychidion: versi indirizzati alla nobile e sfortunata Signorina Teresa V. adesso imprigionata nel Convento di…, .Epipsychidion: Verse addressed to the Noble and Unfortunate Lady Emilia V. Now Imprigioned in the Convent of_ … in cui lei stessa, Mary, viene cantata come fredda casta luna, cold chaste moon, l’eterno amore, che adesso andava sommato a quello per Teresa e anche a quello….. per Claire. Il poemetto sarà subito stampato a Londra da Ollier. Anni dopo Mary avrebbe narrato l’ingenuità di Shelley in un racconto pieno di humour sull’attitudine di Shelley a rapire fanciulle alle quattro di mattina, La sposa dell’Italia moderna, The Bride of Modern Italy.

Una difesa della poesia. Hellas. Adonais

L’amico Peacok aveva scritto un saggio satirico sulla poesia Le quattro età della Poesia, The Four Ages of Poetry, sostenendo, con molta ironia,  l’inutilità della poesia e soprattutto la morte di quella contemporanea.  Shelley gli risponde con uno straordinario saggio Una difesa della  Poesia, A Defence of Poetry, in cui sostiene che la poesia è una facoltà nata con l’uomo: espressione dell’immaginazione, facoltà superiore della ragione “grande strumento della morale e quindi di ogni civiltà e progresso.” L’artista, per lui, è un uomo diverso dagli altri, conosce l’ispirazione e l’intuizione di un bene superiore, l’anima dell’universo. “I poeti – scrive-  sono i sacerdoti di un’ispirazione non ancora percepita, gli specchi delle ombre gigantesche che il futuro proietta sul presente, le trombe che chiamano a battaglia e non avvertono ciò che ispirano.” Traccia quindi una storia della poesia e del suo potere attraverso i secoli. Il saggio uscirà postumo, nel 1840, ma rimarrà celebre per sempre la sua affermazione “I poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo.”

A Pisa conoscono entrambi momenti di grande dolcezza.

Arrivano Edward Williams, ufficiale dell’Esercito del Bengala, ufficiale dei Dragoni, prima amante e poi sposo di Jane, con due bimbi. Jane, donna di una bellezza e di un fascino particolari, suona la chitarra e canta: è perfetta per essere la prossima amante di Shelley. Ma sarà anche la amica più cara di Mary, esclusiva, gelosa, nella Londra del loro esilio dopo la morte di Shelley e di Williams.

Contraggono grande amicizia con il principe greco Alessandro Maurocordato, piccolo di statura, bruno, con gli occhi pieni di passione, esiliato a Pisa come molti altri greci, che avrebbe partecipato alla difesa di Missolungi, come Byron, e sarebbe stato primo ministro greco dal 1854 al 1856; da lui Percy e Mary ricevono lezioni di greco.

Leggono e passeggiano insieme.

Hellas

In occasione della dichiarazione d’indipendenza della Grecia insorta contro i Turchi, e sull’onda dell’entusiasmo rivoluzionario che stava pervadendo l’Europa, Shelley scrive il dramma lirico Hellas, Grecia, e lo dedica a Maurocordato. Prende ispirazione dalla tragedia I Persiani di Eschilo in cui si descrivevano la sconfitta e la caduta di un impero che appariva invincibile ad opera di un popolo, i Greci, che sembrava destinato invece a soccombere a causa dell’inferiorità militare e numerica e augura una analoga vittoria contro i Turchi. Di fronte all’indifferenza e anche all’ostilità delle nazioni europee, di “tutti quei capi di bande privilegiate di assassini e furfanti, detti Sovrani” che vogliono tenere i popoli sottomessi e nemici tra loro, Shelley esalta le insurrezioni in atto e il popolo greco. Come allora inferiore per potenza bellica, ma invincibile, si augura, per il suo coraggio e la sua grande cultura. Scrive “Noi siamo tutti Greci – le nostre leggi, la nostra letteratura, la nostra religione, le nostre arti, hanno le loro radici in Grecia. Senza la Grecia…..noi saremmo potuti restare selvaggi e idolatri.”

Adonais

Il 23 febbraio 1821 muore a Roma John Keats, all’età di 26 anni, senza che la sua grandezza di poeta sia stata riconosciuta. Muore, amorevolmente assistito dall’amico pittore Joseph Severn, venuto con lui da Londra sperando che il clima italiano potesse guarirlo, nella casa che oggi è il Keats Shelley Memorial House in Piazza di Spagna. Shelley ne soffre: saputo della sua malattia, lo aveva invitato, qualche mese prima, a venire suo ospite a Pisa per poter usufruire di quel clima così dolce, ma inutilmente. D’impulso gli dedica l’elegia Adonais, in cui il nome Adonais unisce il greco Adone”, il dio morto giovane che rinasce ogni anno a primavera, all’ebraico “Adonais” che significa “Signore”. È un pianto sulla morte del poeta, sul suo valore, sulle sue sofferenze, anche per il misconoscimento delle sue opere da parte dei contemporanei, ma è anche l’affermazione della sua immortalità e un atto di fede nell’immortalità dello spirito. Quasi identificandosi con lui scrive nella strofa finale

Discende su di me quel soffio il cui potere
ho invocato nel canto, la nave del mio spirito
è spinta ormai lontano dalla riva, lontano
dalla turba tremante le cui vele mai
furono offerte alla tempesta; la solida terra
e la sfera del cielo si sono spaccate
mentre bruciando al pari di una stella
nel più intimo velo dei Cieli, l’anima d’Adonais rifulge
dalle dimore in cui stanno gli Eterni.

L’amico Giovanni Rosini, romanziere, studioso di arte e editore, pubblica in Pisa Adonais a luglio.

In agosto Shelley va a Ravenna a trovare Lord Byron e Allegra, messa dal padre in un convento a Bagnacavallo dove morirà, a 6 anni, come le lettere disperate di Claire a Byron avevano predetto.

A gennaio del 1822, arriva Edwuard John Trelawny, un uomo di mare un po’ selvatico ma generoso come lo definiva Shelley, che li cerca perché affascinato da Byron e che ammalia a sua volta Mary. La quale ne sente la grande umanità pur non sapendo quanto lui le sarebbe stato vicino e amico negli anni futuri, dopo la morte di Shelley.

“The Liberal”

A Pisa non si parla d’altro che dei moti rivoluzionari: Shelley e Byron sono sempre in fibrillazione. Si preparano all’uso delle armi, ora per liberare un uomo che doveva essere bruciato vivo a Lucca per blasfemia (erano voci, ma ne venne un gran movimento) ora per accorrere a difendere gli insorti. Mary avrebbe ricordato sempre le passeggiate in carrozza dietro a Byron, Shelley e Pietro Gamba, che andavano al galoppo verso Villa Padula per esercitarsi a sparare, e quasi apparivano ragazzi felici nei loro giochi.

Pensano anche di editare una rivista, “The Liberal”, che deve essere il segno del loro sodalizio intellettuale artistico e politico. Chiamano a questo scopo l’amico editore Leigh Hunt da Londra. La polizia li sorveglia. Accade anche uno scontro tra la guardia armata pisana e i bravi di Byron in cui il sergente Masi viene gravemente ferito e il bravo Titta incriminato. Alla fine di un lunghissimo processo Titta viene condannato a radersi la barba “rivoluzionaria” e i Byron e i conti Gamba banditi da Pisa: si recheranno quindi a Montenero vicino a Livorno.

Valperga, o Vita e avventure di Castruccio degli Antelminelli principe di Lucca, di Mary Shelley

Mary lavora finalmente al grande scenario storico e umano di Valperga, o vita e avventure di Castruccio degli Antelminelli principe di Lucca, che aveva in mente da molti anni e per il quale trova nelle biblioteche di Pisa tutta la documentazione necessaria. Il titolo contiene un toponimo, Valperga, castello che accoglie al suo interno chiunque chieda rifugio purché desista dall’uso delle armi – creazione fantastica di Mary il cui nome le viene però suggerito dal padre – e il nome proprio di Castruccio, la cui vita è ricostruita fedelmente sulle fonti storiche, tranne che per le vicende sentimentali completamente inventate. Valperga è un monumento alla madre: le due protagoniste femminili, Eutanasia e Beatrice, e le eretiche Guglielma e Maifreda, col loro sogno di una Trinità femminile che cambiasse il mondo, unisse cristiani ebrei e mussulmani, cancellasse le guerre anche di religione, disegnano un quadro grandioso di forze e di profezia: sono le protagoniste di una storia alternativa al patriarcato, sconfitta ma invincibile.

Tutta la famiglia di Mary compare trasfigurata nel romanzo: Mary Wollstonecraft in Beatrice, Mary stessa e Shelley in Eutanasia, Godwin, cui Mary aveva dedicato Frankenstein, nelle figure di Antonio degli Adimari e dei personaggi buoni e pacifici del romanzo. La collaborazione tra padre e figlia era di nuovo intensa: Mary gli aveva mandato il manoscritto e lui era intervenuto limando e suggerendo, fiero di un lavoro così importante. Sarebbe riuscito a farlo editare da Whittaker nel 1823 guadagnandoci ben seicento sterline.

La narrazione si dispiega in un grande scenario storico di battaglie, ordalie, catastrofi, eresie, ma poi si arresta all’improvviso. La penna di Mary non riesce a proseguire perché le accade un fatto che ha in sé dello straordinario: le si para sempre innanzi agli occhi la scena di un naufragio dove tutto finisce travolto da una tempesta e un bel corpo giovane precipita nelle melmose caverne dell’oceano mentre le alghe si intrecciano ai suoi capelli lucenti e gli spiriti dell’abisso, i cieli misericordiosi, i gabbiani e i tuoni piangono. Accade così che Eutanasia improvvisamente perisca in un naufragio, e con lei il suo sogno di pace, prevaricando quasi i propositi e l’amore della sua autrice che scrive, concludendo il romanzo.

Non si seppe più nulla di lei e anche il suo nome perì […].la terra non avvertì nessun cambiamento quando ella morì e gli uomini la dimenticarono […] tuttavia mai uno spirito più leggiadro cessò di respirare né più incantevole forma fu distrutta fra le tante cui dà vita.

Sei mesi dopo Shelley moriva come l’eroina di Valperga e nel 1824, commentando la sua morte, Mary avrebbe usato quasi le stesse parole.

San Terenzo e Villa Magni

Il 19 aprile 1822 Allegra muore di tifo nel convento di Bagnacavallo dove Byron l’aveva lasciata nonostante le disperate suppliche di Claire.

Shelley non regge, vuole partire di nuovo; insieme a Edward Williams, con cui si reca a cercare casa nel Golfo della Spezia, affitta, senza informare Mary e Jane, una casa bianca che lo ha sedotto nella baia di San Terenzo, a pochi chilometri da Lerici: la Villa o Casa Magni, che si affaccia con cinque archi e un grande terrazzo, sulla battigia accanto a una scogliera. Non riflette né sugli amici preziosi che lascia, tra cui il medico Vaccà che gli dà certezza e forza, né sulla necessità di organizzare meglio la partenza né soprattutto sul fatto che Mary non vuole lasciare Pisa.

Quella casa è vuota e troppo piccola per tutti loro, ma nessuna preghiera riesce a fermarlo. “Una sciocchezza come non trovar casa non poteva fermare un uomo come Shelley”, scrive Mary. “Quell’unica che era stata trovata doveva servire per tutti… Lasciammo Pisa il 26 aprile”.

La sera prima di partire Mary apre l’Eneide per trarne auspici, come era sua consuetudine, e distoglie subito gli occhi dai versi che le appaiono: riconosce il libro sesto, la profezia della Sibilla, il viaggio di Enea negli Inferi, il funerale dell’amico Miseno, il rogo del corpo. Chiude il libro con la certezza di aver visto quello che non doveva e di essere ormai prigioniera del destino.

Ingentem struxere pyram, cui frondibus atris/intexunt latera et feralis ante cupressos/costituunt……reliquias vino et bibulam lavere favillam
…Erigono una grande pira, le intrecciano a lato fronde oscure/ e le pongono davanti il cipresso funereo…… i resti e le braci aspergono di vino.
(Eneide, libro VI, vv. 215 e segg.)

Il 29 aprile Trelawny accompagna Mary, Claire e Percy Florence a San Terenzo. Il giorno dopo arrivano Shelley e i Williams con i mobili, traghettati via mare per mezzo di due barche. Avrebbe scritto Mary, anni dopo:

… Il luogo era troppo bello e non sembrava di questa terra: la lontananza di ogni traccia di civiltà, il mare ai nostri piedi, il suo incessante mormorio e il suo mugghio nelle nostre orecchie – tutto invitava la mente a meditare su strani pensieri e, sollevandola dalla quotidianità, l’induceva a familiarizzare con l’irreale. Una sorta di incantesimo ci circondava.

Un’atmosfera piena di prodigi, come un incantesimo, li carpisce; il riverbero azzurro del cielo e del mare li stordisce: avvengono fatti straordinari, visioni che non sanno se siano incubi del sonno o allucinazioni da laudano o manifestazioni di una realtà, di più, di un disegno, ultrasensibili.

Mary è di nuovo incinta e sta male, passa lunghe ore sdraiata su un materasso a causa dei dolori che la prendono al ventre se sta in posizione eretta.

Arriva la barca, la Don Juan, subito ribattezzata Ariel, costruita a Genova insieme al Bolivar di Byron, che transitando un mattino davanti al piccolo borgo atterrisce gli abitanti sparando sei colpi di cannone come saluto agli amici da parte del Lord.

Tutti schierati sulla spiaggia le danno il benvenuto battendo le mani. “Fu così che imprevidenti mortali diedero il benvenuto alla Morte, che aveva nascosto le sue sinistre fattezze sotto una maschera attraente” scriverà Mary a Maria Gisborne.

A Jane

Un nuovo amore, per Shelley, Jane, che canta con voce acuta: Shelley le regala una chitarra e le dedica versi dolcissimi, A Jane, L’invito, Il ricordo, Con una chitarra:

… Tu, più bella e più lucente, vieni, andiamo…
Sorella radiosa del giorno,
su svegliati, alzati e andiamo
ai boschi selvaggi e ai piani,
e alle pozze d’acqua…

Shelley insegue sempre più angosciosamente quello che non riesce a trovare, il significato della vita. E sempre più si lascia andare al richiamo della natura e al sogno di un amore universale, assoluto.

“Penso che si sia sempre innamorati di una cosa o dell’altra; l’errore, e confesso che non è facile che spiriti incassati in carne e sangue riescano a evitarlo, consiste nel cercare in un’immagine mortale la sembianza di ciò che forse è eterno” scrive a John Gisborne il 18 giugno 1822.

Il Trionfo della vita

Frutto di quest’amore e delle sue fughe in barca e nei boschi è Il Trionfo della vita, The Triumph of Life, poemetto incompiuto, quasi scarabocchiato su fogli spiegazzati e spesso macchiati dall’acqua del mare o dal fumo delle candele. Scritto in terzine, riprende quasi la Divina Commedia, essendo il poeta accompagnato nel suo viaggio da una guida che qui non è Virgilio ma Rousseau, e riprende i Trionfi del Petrarca, anche se qui il trionfo della vita è in realtà quello della morte. La vita appare infatti come una grande danza macabra di fantasmi – cadaveri aggiogati a un carro che attraversa in lugubre processione le valli del mondo: uomini che furono potenti e cambiarono la storia, Napoleone e altri come lui, sono ormai parvenze: Rousseau è un teschio quasi vuoto.

Solo una figura spirituale di Bellezza, una figura di luce che appare e scompare, misteriosa e inspiegabile, come l’amore e la musica, mitiga l’orrore di quella visione. Porta nella mano destra “uno specchio di cristallo ricoperto di fulgido nepente”, un farmaco o droga che anestetizza il dolore: dono dello Spirito, illusione, consolazione? Cammina accanto al poeta e trasforma la sua vita in sogno. Il poema rimane incompiuto con un grido finale: Che cosa è la vita? Then what is Life?

The liberal. La morte. Il rogo

Amore, amicizia, mare, cielo; per qualche attimo Shelley riesce a essere felice e continua a dedicare a Jane versi pieni di oblio e di dolcezza.  Mary sta male fisicamente e psicologicamente, è oppressa, come anche gli altri, da presentimenti luttuosi. I dolori al ventre si fanno sempre più forti. Il 16 giugno rischia di morire per un aborto spontaneo che le procura una emorragia che sembra inarrestabile fino a che Shelley, con un intervento geniale, la salva immergendola in una vasca di ghiaccio in attesa del medico che tarda ad arrivare.

Shelley vuole andare a Livorno con l’Ariel per raggiungere Leigh Hunt a Pisa: doveva sistemarlo con la famiglia presso Byron e poi avrebbero finalmente lavorato al loro sogno letterario-politico, “The Liberal”. Mary lo supplica, perde sangue quando lui parla di partire. Ma il primo luglio non riesce più a trattenerlo. Shelley parte con Edward e Charles Vivian, mozzo diciannovenne.

Dopo l’incontro entusiasmante con Hunt, l’8 luglio, lui e Edward decidono di tornare ad ogni costo, nonostante gli avvertimenti e le diffide dei marinai e del personale del porto.

Le nere trombe marine li attendono sulla via del ritorno al largo di Viareggio. Il corpo di Charles Vivian fu il primo a essere straccato, come dicono a Viareggio, cioè buttato dal mare sulla spiaggia, a Massa, il giorno stesso del naufragio, ma senza testa, e non fu quindi subito riconosciuto. Venne bruciato immediatamente, come imponevano le leggi della quarantena, e le sue ceneri interrate nella sabbia. Fu poi trovato il corpo di Edward a Bocca al Serchio, quasi irriconoscibile, se non per gli abiti, e infine, il 18 luglio quello di Shelley, che aveva ancora la giacca e nelle tasche i libri dei versi di Keats e quello delle tragedie di Sofocle donatogli da Leigh Hunt.

Il rogo

Per espressa volontà di Mary durante il rogo verranno versati sul corpo di Shelley e di Williams profumi incenso e olii aromatici e vino, procurati da Byron, come nel funerale di Miseno descritto nel sesto libro dell’Eneide. Secondo quanto lui stesso scrive, Trelawny riuscì a sottrarre alle fiamme il cuore di Shelley che non bruciava e lo portò a Mary in una scatola di legno. Mandò poi le sue ceneri a Roma e le fece interrare nel cimitero degli Inglesi, accanto a quelle del piccolo William, e a quella che sarebbe diventata un giorno la sua tomba.

Ancora oggi è visibile nella Memorial House di Roma, dedicata a Shelley, Byron e Keats (e non a Mary) un’urna di vetro che contiene alcuni frammenti delle ossa di Shelley.

L’11 settembre, nel primo declinare dell’estate, Mary e Jane lasciano Casa Magni: è ancora una volta Trelawny ad accompagnarle, insieme ai bambini, nella villa che avevano affittato a Genova, sulle colline di Albaro, di fronte al mare. Claire era già partita per Vienna dove viveva suo fratello Charles e dove farà la governante; arriverà fino a Mosca e Dresda e terminerà poi la sua lunga vita a Firenze assistita dalla nipote Pauline nel 1879. Mary resta sola con Percy Florence nella solitaria e ventosa Villa Negrotto nella Crosa di San Nazaro dove il 4 ottobre la raggiungono gli Hunts con i sei figli (il settimo sarebbe nato lì non molto tempo dopo). Byron, Teresa Guiccioli e i Gamba si stabiliscono poco lontano nella splendida Villa Saluzzo che Mary aveva affittato per loro.

Per raggiungere Genova da Livorno Byron aveva transitato nel Golfo della Spezia e dopo una forzata sosta a Lerici, causata da una febbre forse di natura reumatica, e funestata per di più da una scossa di terremoto, era passato davanti a Casa Magni e l’aveva vista, finalmente; ma ormai deserta.

Il soggiorno a Genova avrebbe dovuto essere breve, per tutti loro, e invece durò quasi un anno.

Gli Inglesi residenti a Genova, secondo quanto scrisse Trelawny nelle sue memorie, non vollero ricevere Mary e furono “molto acidi verso di lei, most bitter against her”. Fu Byron a convincere Mary a non rientrare subito a Londra e a sostare a Genova almeno il tempo in cui anche lui vi fosse rimasto in attesa che la sua nave da guerra, l’Hercules, fosse armata e pronta per andare a combattere contro i Turchi in Grecia.

Byron, Teresa Guiccioli, Trelawny fanno frequenti visite a Mary, ma lei è ormai sola. Pensa soltanto ad occuparsi di Percy Florence e a lavorare. Ogni mattina copia i manoscritti di Shelley, fra cui la traduzione della Walpurgisnacht dal Faust di Goethe, che poi farà editare nel primo numero del The Liberal, finché regge emotivamente e fino a quando può sopportare il freddo nella poco riscaldata casa genovese. Trascrive anche i manoscritti di Byron che la ricompensa per questo e lavora per Hunt intorno alla rivista che dirigerà, a Londra, insieme a lui e a Byron. Nel novembre assiste, dall’alto della collina di Albaro, insieme a Byron, all’esondazione del Bisagno, che causò molti disastri e morti.

Avrebbe poi ricordato sempre con tenerezza gli scogli, i promontori, il cielo luminoso e i ridenti vigneti della splendida città che si specchia nelle acque azzurre del Mediterraneo e le avrebbe dedicato, anni dopo, uno dei suoi più felici racconti, Trasformazione.

Ma allora Genova era il luogo della sua solitudine. Qui scrive versi di disperazione e di ricordi laceranti, gli unici versi della sua produzione letteraria. La caduta tragica nella morte e nella privazione è la sostanza delle poesie: nel ’23 scrive La scelta, The Choice, un poemetto in versi sulle passioni, politiche intellettuali morali e artistiche che l’avevano legata a Shelley e sulla sua morte, come quella dei figli, avvenuta in Italia, “Italia – cara Italia – assassina di quelli che amo e di tutta la mia felicità” annota nel Diario.

Con l’arrivo dell’autunno e dell’inverno il vento ulula sempre più forte nelle tante stanze fredde, penetrando tra gli infissi delle alte finestre. Scrive a Trelawny: “Qui sono come mi hai lasciato. Il vento fischia e io sono senza conforto come allora. Dimenticata da tutti, non posso dimenticare nessuno… Il tempo per me è nullo. Mi colpisce come uno sproposito parlare del suo trascorrere. Non ci sono che un momento, una data, per me; da allora mi sono imbarcata per l’eternità – dove emozioni e sentimenti sono la nostra dimensione e il tempo è finito.”

A luglio l’Hercules è ormai pronto: il 14 Byron, Pietro Gamba e Trelawny partono per la Grecia. Mary rimane accanto a Teresa in quelle ore piene di dolore in cui sente che non avrebbe più rivisto quegli uomini tanto generosi, un heros et un martyr, un eroe e un martire, come scrisse poi nelle sue memorie, rendendo omaggio anche al fratello di chi? che non avrebbe oltrepassato i 25 anni

Il giorno dopo Teresa e il padre partono a loro volta senza sapere che Byron, costretto a una sosta forzosa nel Mar Ligure per mancanza di vento, si aggirava per il borgo di Sestri Levante e sostava nella Villa Lomellina. E rientrava poi ad Albaro per rivisitare la grande villa ormai deserta.

Il 25 luglio Mary e Percy Florence partono per Londra via terra: transitano per Asti, Torino, Susa, Lione, rimangono dal 12 al 20 agosto a Parigi e arrivano a Londra il 25 agosto.

Lettera a Maria Gisborne, Pisa 15 agosto 1822

La lettera che Mary scrisse a Maria Gisborne il 15 agosto 1822 per darle notizia della morte di Shelley e per ragguagliarla sulla loro vita a San Terenzo, è il più straordinario e dolente documento che rimane su quel periodo così determinante per loro ma anche per quei luoghi che poi Sem Benelli chiamerà “Golfo dei poeti” proprio in omaggio a Mary e Percy che vi erano arrivati per primi.

A Maria Gisborne Pisa 15 agosto 1822

Con una lettera a Peacock le feci sapere, mia cara signora Gisborne, che le avrei mandato il resoconto degli ultimi infelici mesi della mia disastrosa vita. Di giorno in giorno ho rimandato, ma ora tenterò di compiere il mio dovere. Lo scenario della mia esistenza si è chiuso e non c’è alcun piacere nel ricordare i fatti che hanno preceduto l’evento che ha annientato le mie speranze. Le scrissi sia alla fine di maggio che all’inizio di giugno. Le descrissi il luogo in cui abitavamo: la nostra casa solitaria, la bellezza e tuttavia la singolarità dello scenario e la gioia di Shelley per tutto questo, non era mai stato così bene di salute e di umore come in questo periodo. Io ero ammalata fisicamente e psicologicamente. I miei nervi erano tesi nella massima irritabilità, un presentimento di sventura gravava sul mio spirito. Non ci sono parole per dirle quanto odiassi la nostra casa e il paesaggio. Shelley mi rimproverava per questo; la sua salute era buona e il luogo lo entusiasmava. Cosa potrei rispondere: che gli abitanti erano selvaggi e odiosi, che sebbene il paesaggio fosse bello avrei preferito tuttavia un luogo più rurale, che v’erano molte difficoltà a vivere, che non avremmo più visto i nostri amici toscani e che il dialetto di questi genovesi non era amabile. Questo è quanto ho da dire, ma nessuna parola può descrivere i miei sentimenti: la bellezza dei boschi mi faceva piangere e tremare. Il mio sentimento di disgusto era così veemente che ero solita rallegrarmi quando i venti e le onde mi permettevano di uscire in barca cosicché non ero obbligata a fare la mia solita passeggiata fra i sentieri ombreggiati degli alberi, ricoperti da pergolati di viti; tutto ciò che prima adoravo ora mi pesava. I miei momenti di pace erano a bordo di quella barca infelice quando stavo piegata con la testa sulle sue ginocchia, chiudevo gli occhi e sentivo solamente il vento e la veloce andatura della barca. La mia cattiva salute può dare una spiegazione a molto di tutto ciò – fare il bagno nel mare mi sollevava un po’ – ma l’8 giugno (penso fosse quella data) ebbi una minaccia d’aborto e dopo una settimana di malattia, domenica 16 alle 8 del mattino stavo così male che per 7 ore rimasi quasi senza vita; il brandy, l’aceto, l’acqua di Colonia ecc. mi aiutarono a non svenire, alla fine del ghiaccio fu portato nella nostra casa solitaria, arrivò prima del dottore, perciò Claire e Jane avevano paura di usarlo, ma Shelley si impose su di esse e con una generosa applicazione di ghiaccio mi salvò. Tutti pensarono, e così anche io, che stessi per morire, non lo desideravo affatto, il mio Shelley non sarebbe mai vissuto senza di me, il senso di eterna disgrazia avrebbe pesato troppo su di lui, che sarebbe accaduto al mio povero bambino? Durante la mia lenta convalescenza si verificò uno strano avvenimento che la ritardò. Ma prima devo descriverle la nostra casa. Il piano che noi abitavamo era questo:

1) è una terrazza che si stende tutta lungo la casa, a picco sul mare; 2) l’ampia sala da pranzo; 3) una scala interna; 4) la mia camera; 5) la camera dei Williams; 6) di Shelley; 7) l’entrata della scala principale. Ora, per riprendere. Come ho detto, Shelley era dapprima in perfetta salute ma un giorno, per la fatica, e lo spavento che aveva preso a causa del mio malessere, ci fu in lui un ritorno di sensazioni nervose e di visioni così negative come nei suoi periodi peggiori. Penso fosse il sabato dopo la mia malattia mentre non potevo ancora camminare ed ero confinata a letto; nel cuore della notte fui svegliata sentendolo gridare e venire precipitosamente nella mia camera. Ero sicura che stesse dormendo e cercai di svegliarlo chiamandolo, ma egli continuò ad urlare e mi provocò un tale panico che io balzai fuori dal letto e corsi attraverso l’entrata sino alla stanza dalla signora Williams dove caddi per la debolezza, sebbene fossi così spaventata che mi rialzai immediatamente. La signora mi lasciò entrare e Edward andò da Shelley che era stato svegliato dal mio balzo sul letto. Shelley disse che non stava dormendo e che aveva avuto una visione che lo aveva spaventato. Ma poiché aveva dichiarato di non aver urlato, era stato certamente un sogno e non una visione ad occhi aperti. Aveva sognato che mentre si trovava sdraiato a letto, Edward e Jane erano venuti da lui; erano nelle peggiori condizioni, i loro corpi lacerati, le ossa che uscivano dalla pelle, i visi pallidi e macchiati di sangue, potevano a malapena camminare, ma Edward era il più debole e Jane lo sorreggeva. Edward disse: «Alzati Shelley, il mare sta inondando la casa e sta venendo tutto dentro». Shelley si alzò, e andò alla finestra che dava sulla terrazza e sul mare e pensò di vedere il mare che irrompeva. Improvvisamente la sua visione cambiò e vide la sua figura che mi strangolava, fatto che lo fece accorrere nella mia stanza. Tuttavia temendo di impaurirmi non osò avvicinarsi e quando balzai fuori dal letto lo svegliai, o come egli stesso disse, gli feci sparire la sua visione. Tutto questo era abbastanza spaventoso e discutendone il mattino seguente Shelley mi disse di aver avuto molte visioni ultimamente. Aveva visto l’immagine di se stesso e l’aveva incontrata mentre stava camminando sulla terrazza che gli diceva: «Per quanto tempo pensi di essere felice?» parole non molto terrificanti e certamente non profetiche in relazione a ciò che è accaduto. Shelley aveva spesso visto il suo doppio quando stava male, ma la cosa più strana fu che la signora Williams lo vide.
Ora Jane, sebbene sia una donna sensibile, non ha molta immaginazione e non è per niente nervosa né nei sogni né in altro. Un giorno, il giorno prima che mi ammalassi, era insieme a Trelawny, davanti ad una finestra che dava sulla terrazza – era giorno – e ella vide Shelley passare davanti alla finestra, come spesso faceva, senza cappotto o giacca – e lo vide passare di nuovo. Ora, poiché passò entrambe le volte allo stesso modo e dal lato verso il quale andava ogni volta non c’era modo di tornare passando nuovamente dalla finestra (eccetto oltrepassando un muro alto 20 piedi da terra), fu colpita di vederlo passare due volte in quella direzione, guardò fuori e non lo vide più e urlò: «Buon Dio, Shelley può essere saltato dal muro? Dove può essere andato?» «Shelley, non è passato» – disse Trelawny – «No, cosa vuoi dire?». Trelawny disse che Jane tremò violentemente quando ascoltò queste parole e ciò provò davvero che Shelley non aveva fatto queste cose e piano piano io stetti meglio. Avendo saputo che Hunt era partito da Genova, lunedì 1° luglio Shelley, Edward e il capitano Roberts (che aveva costruito la nostra barca) partirono via mare alla volta di Livorno per incontrarlo. Allora cominciavo a star meglio e mi trascinavo dalla mia camera da letto alla terrazza; ma cattivi spiriti subentrarono alla cattiva salute, e la partenza di Shelley aggiunse un dolore insopportabile alla mia infelicità. Non potevo accettare che lui dovesse partire, lo richiamai indietro due o tre volte, e gli dissi che se non l’avessi rivisto presto sarei andata a Pisa col bambino. Piansi amaramente quando se ne andò. Partirono; Jane, Claire ed io rimanemmo sole con i bambini; non ero in grado di uscire, e sebbene gradualmente riacquistassi le forze, ciò avveniva lentamente e il mio malumore aumentò. Nelle lettere che gli scrissi lo supplicai di tornare, il presentimento che qualche disgrazia sarebbe accaduta mi perseguitava; temevo per il bambino, poiché il sentimento di un pericolo legato a lui non mi lasciava mai. Quando Jane e Claire uscivano per la loro passeggiata serale, ero solita andare avanti e indietro sulla terrazza, oppressa dall’infelicità, ammirando tuttavia lo scenario più bello del mondo. Il Golfo della Spezia è suddiviso in molte piccole baie delle quali la nostra era di gran lunga la più bella.
I due estremi della baia (per spiegarmi) erano promontori ricoperti di boschi e coronati da castelli; sul più lontano, si ergeva il castello di Lerici, sul più vicino Santerenzo – essendo Lerici a circa un miglio di cammino da noi e San Arenzo a circa cento o duecento iarde – gli alberi ricoprivano le colline che racchiudevano questa baia e bellissimi gruppi di alberi erano pittorescamente contrastati dalle rocce dal castello e dal paese. Il mare si stendeva di fronte, mentre ad ovest si vedevano il promontorio e le isole che formavano uno degli estremi confini del Golfo.
Vedere il sole che tramonta su questo scenario, le stelle splendenti e la luna che sale, era una vista di meravigliosa bellezza, ma per me andava ad aggravare solamente il mio stato di infelicità. Ripetevo a me stessa tutto quello che un altro avrebbe detto per consolarmi, e mi raccontavo la storia di amore, pace e conoscenza di cui ho gioito, ma in lacrime mi rispondevo, non è morto il mio William? Ho tenuto il mio Percy con un più stretto possesso? Tuttavia pensavo che quando il mio Shelley fosse ritornato io sarei stata felice. Mi avrebbe confortato; se il mio bambino si fosse ammalato egli lo avrebbe curato e mi avrebbe incoraggiata. Ho ricevuto una o due lettere da Shelley in cui menzionava le sue difficoltà nel sistemare gli Hunt e diceva di essere impossibilitato a fissare la data del suo ritorno. Così passò una settimana.

Lunedì 8 Jane ricevette una lettera da Edward, datata sabato, in cui egli diceva che era a Livorno e stava aspettando Shelley che si trovava a Pisa. Il ritorno di Shelley era certo, “ma”, egli continuava, «se Shelley non tornerà entro lunedì, verrò a casa con una felucca, potresti aspettarti il mio arrivo al più tardi martedì.” Questo accadeva lunedì, il fatale lunedì, ma da noi ci fu tempesta per tutto il giorno e non immaginavo assolutamente che si fossero messi in mare. A mezzanotte ci fu un temporale, il martedì piovve per tutto il giorno e tornò la calma. Il cielo pianse sulle loro tombe. Il mercoledì il vento tirava favorevole da Livorno e alla sera diverse felucche arrivarono da là. Una portò la notizia che erano partiti lunedì, ma non vi credemmo. Il giovedì fu un altro giorno di vento favorevole e quando scoccò la mezzanotte e non scorgemmo le alte vele della piccola imbarcazione doppiare il promontorio davanti a noi cominciammo non a temere la verità ma ad illuderci su qualche impedimento e su qualche spiacevole notizia circa il loro ritardo. Jane divenne così ansiosa da voler partire in barca per Livorno il giorno seguente alfine di appurare che cosa fosse successo. Venerdì ci furono una mareggiata e vento contrario. Jane, comunque, decise di andare a Livorno (da quel momento nessuna barca poté salpare) e si affrettò a prepararsi. Io desideravo che aspettasse le lettere, dato che il venerdì era il giorno dell’arrivo della posta – ma lei non volle aspettare. Il mare la trattenne, le onde erano così grosse che nessuna imbarcazione si azzardò ad uscire. A mezzogiorno arrivarono le nostre lettere. Ce n’era una di Hunt per Shelley; essa diceva: «Per favore scrivi per dirci come sei tornato a casa, poiché si dice che c’è stato maltempo dopo la tua partenza di lunedì e siamo ansiosi.” Il foglio mi cadde dalle mani. Tremai tutta. Jane lo lesse: «Allora è tutto finito!» disse. «No, mia cara Jane,» urlai «non è tutto finito, ma quest’attesa è terribile. Vieni con me, andremo a Livorno con una carrozza per essere veloci e conoscere il nostro destino.» Andammo a Lerici, la disperazione era nei nostri cuori; là sollevarono i nostri animi riferendoci di non aver avuto notizia di nessun incidente perché loro avrebbero dovuto esserne informati. Ma ancora la nostra paura era viva e senza fare sosta partimmo per Pisa. Doveva essere stato spaventoso vederci, due povere creature pazze e atterrite andare (come Mathilda) verso il mare per sapere se dovevamo essere per sempre condannate all’infelicità. Sapevo che Hunt si trovava a Pisa, ospite di Lord Byron, ma pensavo che L B. fosse a Livorno. Decisi che dovevamo dirigerci a Casa Lanfranchi e ripetere la terribile domanda di Hunt: «Sapete qualcosa di Shelley?»  Arrivando a Pisa, l’idea di vedere Hunt per la prima volta dopo quattro anni in tali circostanze, e porgli una simile domanda era così terrificante per me che lottai terribilmente per non avere le convulsioni. Bussammo alla porta e qualcuno chiese «Chi è?». Era la cameriera della Guiccioli. Lord Byron era a Pisa. Hunt era a letto, così dovevo vedere Lord Byron invece di lui. Questo fu un grande sollievo per me; barcollando salii le scale. La Guiccioli mi venne incontro dicendo, mentre io non riuscivo a parlare, «Dov’è? Sapete niente di Shelley?» Non sapevano niente. Era partito da Pisa la domenica, il lunedì era salpato, c’era stato maltempo il lunedì pomeriggio, non sapevano altro. Sia Lord Byron che la signora allora mi dissero che quella terribile sera sembravo più un fantasma che una donna. Una luce sembrava emanare dai miei lineamenti, il mio viso era pallidissimo, sembravo di marmo. Ahimè. Mi ero appena alzata da un letto di dolore per questo viaggio. Avevo viaggiato tutto il giorno. Era mezzanotte: rifiutandoci di riposare, procedemmo alla volta di Livorno, non disperate, no, perché allora avremmo dovuto morire; ma con quel poco di speranza che ci permetteva di mantenere un’agitazione nei nostri animi che era tutta la vita. Erano circa le due del mattino quando arrivammo. Ci portarono nella locanda sbagliata, né Trelawny né il capitano Roberts erano là e neppure sapevamo esattamente dove fossero, così fummo costrette ad aspettare fino all’alba. Ci buttammo vestite sui letti e dormimmo un po’, ma alle 6 andammo in una o due locande per chiedere di uno e dell’altro. Trovammo Roberts al Globo. Ci venne incontro con una espressione che diceva che il peggio era vero, e qui fummo a conoscenza di tutto ciò che era accaduto durante la settimana in cui erano lontani da noi e in quali circostanze erano ripartiti. Shelley aveva trascorso la maggior parte del tempo a Pisa, sistemando le faccende degli Hunts e tirando le corde della mente di Lord Byron a proposito della rivista. Era stato difficile, ma alla fine era riuscito a soddisfare entrambi gli obiettivi. La signora Mason disse di averlo visto migliorato di salute e di animo come non lo aveva mai visto; quando si congedò da lei, domenica 7 luglio, il suo viso era bruciato dal sole e il suo cuore leggero poiché era riuscito a sistemare gli Hunts discretamente. Edward era rimasto a Livorno. Lunedì 8 luglio trascorsero la mattinata a comprare molte cose, viveri ecc. per la nostra solitudine. C’era stato un temporale prima, ma verso mezzogiorno il tempo era bello e il vento spirava verso Lerici. Erano impazienti di partire. Roberts disse: «Rimanete sino a domani per vedere se il tempo si stabilizza» e Shelley sarebbe rimasto, ma Edward aveva una gran ansia di raggiungere casa. Dissero che sarebbero arrivati in sette ore con quel vento favorevole, così salparono! Shelley era preso da uno di quegli attacchi stravaganti di spiriti buoni in cui lei lo ha visto qualche volta. Roberts andò sino alla fine del molo e rimase ad osservarli finché non scomparvero dalla sua vista: salparono all’una e andavano alla velocità di circa sette nodi. Circa alle tre, Roberts che si trovava ancora sul molo, vide una tromba d’aria provenire dal Golfo, o meglio ciò che gli italiani chiamano un temporale: ansioso di sapere come la barca avrebbe resistito alla tempesta, sali sulla torre e col cannocchiale li scorse a circa 10 miglia fuori Viareggio, stavano ritirando le seconde vele. «La foschia prodotta dalla tempesta» disse «li nascondeva alla mia vista e non li vidi più; quando la tempesta si calmò guardai di nuovo pensando di vederli tornare, ma non c’era nessuna imbarcazione in mare». Questo era tutto ciò che venimmo a sapere, tuttavia non disperammo, potevano essere stati spinti verso la Corsica e non conoscendo la costa essere andati Dio solo sa dove. Le notizie erano a favore di questa ipotesi. Fu anche detto che erano stati visti nel Golfo. Decidemmo di far ritorno velocemente. Mandammo un corriere di torre in torre lungo la costa per sapere se qualcosa era stato visto o trovato, e alle 9 del mattino lasciammo Livorno; ci fermammo solo per un momento a Pisa e procedemmo alla volta di Lerici. Quando a 2 miglia da Viareggio cavalcammo alla volta di quella città per sapere se qualcuno era a conoscenza di qualcosa, qui per la prima volta la nostra calamità ci colpì, una piccola imbarcazione e un barile per l’acqua erano stati trovati a cinque miglia. Loro avevano fatto costruire una piccolissima lancia con sottili tavole unite insieme da un ciabattino proprio per scendere a terra senza bagnarsi poiché la nostra barca pescava in acqua quattro piedi. La descrizione di quel ritrovamento corrispondeva, ma quella barca era molto ingombrante ed era probabile che essi l’avessero facilmente gettata a mare. Il barile era la cosa che più mi spaventava, ma si poteva ugualmente trovare una ragione. Devo dirle che Jane ed io ora non eravamo sole. Trelawny ci accompagnò nel nostro ritorno a casa. Proseguimmo il nostro viaggio e raggiungemmo il fiume Magra alle 10.30 di sera. Non sono in grado di descriverle ciò che provai in un primo momento quando guardammo il fiume; sentii l’acqua spruzzare sulle ruote della carrozza. Mi sentii soffocare: feci sforzi per respirare, pensai di avere le convulsioni e lottai violentemente perché Jane non se ne accorgesse. Guardando il fiume vidi le due grosse lanterne che bruciavano alla foce. Una voce dentro di me sembrava urlare forte che quel mare era la sua tomba. Dopo aver oltrepassato il fiume mi ripresi gradualmente. Arrivando a Lerici fummo obbligati ad attraversare la nostra piccola baia in barca: San Terenzo era illuminato per una festa. Che scena: il mare mugghiava, il vento di scirocco, le luci del paese verso cui remavamo, e i nostri cuori sconsolati, tutto veniva coperto da un sudario. Approdammo; non si sapeva nulla di loro. Questo accadeva sabato 13 luglio e in questo modo aspettammo sino a giovedì 20 luglio tra speranza e paura. Mandammo dei corrieri lungo la costa verso Genova e Viareggio: niente era stato trovato oltre alla lancetta; speravamo che ci portassero notizie. Per dirle tutta l’agonia che vivemmo durante quei dodici giorni dovrei farle immaginare un universo di dolore: ogni momento era intollerabile e sfociava in uno ancora peggiore. Anche la gente del paese aumentava il nostro dolore, essi sono come selvaggi, alle feste gli uomini e le donne e i bambini in gruppi diversi, i sessi sempre separati, trascorrono l’intera notte a ballare sulla spiaggia vicino alla nostra porta correndo avanti e indietro in mare urlando senza sosta e cantando il canto più detestabile del mondo. Poi lo scirocco soffiava continuamente e il mare gemeva un eterno canto funebre per loro. Giovedì 25 luglio Trelawny ci lasciò per andare a Livorno per vedere cosa doveva o poteva fare. Il venerdì stavo malissimo, ma quando venne sera dissi a Jane – «Se qualcosa fosse stato trovato sulla costa, Trelawny sarebbe tornato indietro a riferircelo. Non è tornato, così io spero.» Circa alle sette di sera egli fece ritorno: tutto era finito, tutto era chiaro ora; erano stati trovati, riversi sulla riva. Dunque, bisognava accettarlo. Cosa devo dire di più? Il giorno dopo tornammo a Pisa e siamo ancora qui. I giorni passano, uno dopo l’altro e noi viviamo così. Siamo tutti insieme, lasceremo l’Italia insieme. Jane deve proseguire per Londra, io, se non sarò costretta, per lettera, a mutare la mia opinione, rimarrò a Parigi. Così viviamo vedendo gli Hunts ogni tanto. Povero Hunt, ha sofferto terribilmente, come puoi immaginare. Lord Byron è molto gentile con me e viene spesso a farmi visita con la Guiccioli. Oggi, questo giorno, il sole splende nel cielo. Essi sono andati sulla costa deserta per compiere le ultime funzioni alle loro spoglie mortali. Hunt, Lord Byron e Trelavny. Le leggi sulla quarantena non ci permisero di rimuovere i loro corpi prima, ed ora ce lo permettono solo a condizione di cremarli. Ciò non mi dispiace, le sue spoglie andranno a Roma accanto al mio bambino dove un giorno anch’io li raggiungerò. Adonais non è l’elegia dedicata a Keats, ma a se stesso. In essa ci invita ad andare a Roma. Ho visto il luogo dove egli giace ora: i rami di pino indicano il luogo dove la sabbia lo copre. Non sarà sepolto là, è troppo vicino a Viareggio. Stanno per finire questa funzione spaventosa ed io vivo! Menzionerò ancora una circostanza. Come ho detto egli si congedò dalla signora Mason di buon umore. Lei mi disse «Non vidi mai nel suo sguardo e nel suo volto una felicità maggiore di quell’ultima volta». Il lunedì lui era smarrito, il lunedì notte ella sognò di essere da qualche parte, non sapeva dove, e lui pallidissimo e spaventosamente malinconico arrivò. Lei gli disse: «Sembri malato, sei stanco, siediti e mangia.» «No», egli rispose «non mangerò mai più; non ho un soldo.» «Sciocchezze,» ella disse, «questo non è un albergo, tu non devi pagare» «Forse», egli rispose, «È peggio per questo». Poi ella si svegliò e addormentandosi di nuovo sognò che il mio Percy era morto e si svegliò piangendo amaramente (così amaramente da sentirsi infelice e si disse – «Se il ragazzo dovesse morire non lo percepirei in questo modo.»). Era così colpita da questi sogni che ne parlò il giorno dopo alla sua cameriera dicendo che sperava che tutto andasse bene per noi. Questa è la mia storia, l’ultima storia che devo raccontare. Tutto ciò che poteva essere luminoso nella mia vita è ora precipitato: vivrò per migliorare me stessa, per avere cura di mio figlio e rendermi degna di raggiungerlo Presto inizierà il mio faticoso pellegrinaggio – ora riposo – ma presto devo lasciare l’Italia e allora ci sarà una fine a tutta la disperazione. Adieu, spero che lei stia bene e sia felice. Penso che mentre era a Pisa Shelley abbia ricevuto una lettera da parte sua, che però non ho mai visto, così, non sapendo dove spedirle questa, la mando a Peacock. La spedirò aperta, sarà felice di leggerla. Distinti saluti sempre fedelmente Mary WS. – Pisa. Probabilmente le scriverò nuovamente presto. Mi sono dimenticata una circostanza reale. Una barca da pesca li ha visti affondare. Erano circa le 4 del pomeriggio – videro il ragazzo sull’albero maestro quando venti contrari colpirono le vele; distolsero lo sguardo per un momento e quando la cercarono nuovamente con lo sguardo, la barca non c’era più. Questa è la loro storia ma si può pensare che questi uomini avrebbero potuto salvarli, almeno Edward che sapeva nuotare. Essi dissero di non essersi potuti avvicinare alla barca ma dopo tre quarti d’ora passarono nel punto in cui l’avevano vista – dichiararono che non vi era traccia di naufragio, ma Roberts salendo a bordo della loro barca trovò diversi elementi di alberatura che appartenevano alla barca di Shelley. Forse li avevano lasciati perire per prenderli. Trelawny pensa di poterla tirare su, poiché un altro pescatore è sicuro di aver visto il luogo dove la barca è affondata, vicino alla costa. Trelawny lo vuol fare forse per scoprire le cause del naufragio. A me poco importa.

Il Funerale di Shelley e il Cimitero degli Inglesi

Le ceneri di Shelley vennero poste in una cassetta di legno di quercia foderata di velluto nero, chiusa con viti d’acciaio con il nome, la patria e l’età incisi in latino su una targhetta di metallo. La scatola fu consegnata il 16 agosto a Trelawny, in quanto comandante dello scooner Bolivar con Bandiera Inglese di proprietà di Lord Byron, Pari d’Inghilterra. Trelawny a sua volta affidò le ceneri a Mr. Grant della House of Group Pellam & Co. di Livorno, e questi le inviò a John Freeborn, il suo corrispondente commerciale a Roma, una specie di vice console che commerciava vini e che, ricevutole all’inizio di dicembre, le consegnò poi al reverendo Richard Burgess. Vennero quindi racchiuse in una bara di proporzioni normali per la sepoltura.

Il funerale ebbe luogo il 21 gennaio 1823 nel Cimitero Acattolico di Roma, detto anche “Cimitero degli Inglesi” o “Cimitero del Testaccio”, che si trova nel quartiere romano del Testaccio, a fianco della Piramide Cestia e che era stato ufficialmente aperto nel 1821. Fu organizzato dal pittore Joseph Severn, che aveva accompagnato e assistito Keats a Roma, come si è detto, e volle essere poi sepolto accanto a lui: vi parteciparono alcuni amici inglesi, artisti e letterati. Nel 1845 Severn dipinse un ritratto postumo di Shelley, intento a scrivere il Prometeo liberato sotto gli archi delle terme di Caracalla.

Edward Trelawny arrivò a febbraio e riesumò le ceneri di Shelley per seppellirle in una zona più vicina alla tomba del figlioletto; piantò alberi e cipressi tutt’intorno e acquistò lo spazio per la sua tomba personale. Fece posizionare tomba di Shelley una lapide di marmo con l’iscrizione

Percy Bisshe Shelley
Cor Cordium
Natus IV AUG MDCCXCII
OBIIT VIII JUL. MDCCCXXII

Seguita da alcuni versi tratti dalla Tempesta di Shakespeare :

Nothing of him that doth fade
But doth suffer a sea change
Into something rich and strange.

Niente di lui svanisce

Ma subisce una metamorfosi marina
In qualcosa di ricco e strano.

Diede poi disposizioni affinché le sue ceneri venissero trasportate a Roma dall’Inghilterra (dove morì il 13 agosto 1881 all’età di 88 anni) e poste nello spazio appositamente acquistato accanto alla tomba di Shelley con i seguenti versi sulla lapide:

These are two friends whose lives were undivided:
So let their memory be, now they have glided
Under the grave: let not their bones be parted,
For their two hearts in life were single-hearted.
Questi sono due amici le cui vite erano indivise:
Quindi lascia che la loro memoria sia, ora sono scivolati
Sotto la tomba; non lasciare che le loro ossa si separino,
perché i loro due cuori nella vita erano uno solo.

Nel Cimitero, straordinario per la conformazione di un percorso che si snoda come un giardino tra tombe e statue di rara bellezza, si trova dunque in un gruppo di lapidi che parlano di amicizie più forti della morte, come è stato detto all’inizio di questo racconto: nel lontano Sussex Thomas Medwin faceva scrivere sulla sua tomba: “Fu amico e compagno di Byron, Shelley e Trelawny” e qui Trelawny sta accanto al grande amico che aveva ammirato e amato sopra a tutti.

Shelley aveva scelto il luogo per stare accanto al suo amato bimbo perduto, William. Poco distanti, la tomba di Keats, con la scritta che lui stesso aveva dettato, “Qui giace uno il cui nome è scritto sull’acqua”, e quella di Joseph Severn e del suo bimbo, parlano di un sodalizio e di fedeltà.

A suggellare quasi questo inestinguibile discorso di amore e spiritualità, un’altra lapide è posta accanto a quella di Shelley: è quella di Gregory Corso, nato nel 1902 a New York da immigrati italiani, cresciuto nell’abbandono e in prigione giovanissimo per furti e rapine. Corso ha scritto di aver avuto una conversione in carcere leggendo Shelley, e di avere quindi cambiato vita. Divenne poi un celebre poeta della Beat Generation e volle che le sue ceneri fossero trasportate dal Minnesota a Roma nel Cimitero Acattolico accanto a quelle di Shelley.

Fece scrivere sulla sua lapide:

Spirit
is Life
It flows thru
the death of me
endlessly
like a river
unafraid
of becoming
the sea
Lo Spirito
è Vita
Attraversa
la mia morte
all’infinito
come un fiume
che non ha paura
di diventare
mare

Mary Shelley a Londra. L’Ultimo Uomo

Londra, “l’inferno pieno di fumo” come diceva Shelley, non perdonò mai Mary. Né gli Shelley né la società londinese in generale l’avevano accolta. I pochi amici che le scaldavano il cuore erano tali per l’antica condivisione di un passato ancora coralmente condannato. Eppure era famosa: vide a teatro il suo Frankenstein o il demone della Svizzera nella versione di Brisley Peake nel 1823, con il celebre attore Thomas Potter Cooke nella parte della cosa e lo stesso spettacolo fu rappresentato a New York due anni dopo. Il suo romanzo, quello che nella prefazione del 1831 avrebbe chiamato la sua hideous progenies, la sua orribile creatura, andava in giro per il mondo.

Il 19 aprile del 1824 Byron moriva a Missolungi all’età di 36 anni, come aveva previsto in una sua poesia.

La patria che lo aveva cacciato ora lo proclamava eroe: il suo corpo venne trasportato a Londra in una cassa di alcool. Mary partecipò alle cerimonie che vennero effettuate in suo onore e il 12 luglio vide passare sotto alla sua finestra il feretro che veniva trasportato per Highgate Hill verso Nottingham in una macabra processione di carrozze abbrunate a lutto. “Albè, il caro capriccioso affascinante Albè, ha lasciato questo mondo deserto, Albè, the dear capricious fascinating Albè has left this desert word”, scriveva nel Diario chiamandolo col soprannome affettuoso che gli avevano dato per un suo costume da guerriero albanese. “Come potrò dimenticare le sue attenzioni e consolazioni durante la mia più profonda disperazione?” Lo avrebbe sempre ricordato quando, a Villa Diodati, andava loro incontro sorridente nella sua bellezza smagliante e quando, nel lago in tempesta, cantava l’Inno tirolese alla libertà, accordando la sua voce con le onde e il vento. Le sembrava di essere rimasta solo lei, l’ultima, ad aggirarsi tra le tombe di quelli che aveva amato.

Sir Timothy, il padre di Shelley, che non avrebbe mai perdonato neppure alla memoria del figlio, l’aveva circondata di divieti, (a non presentarsi col cognome Shelley, a non scrivere sul marito, a non scrivere lei stessa, a non allontanarsi dall’Inghilterra) con il ricatto di sottrarle la magra rendita destinata al nipote, rendita difesa però sempre strenuamente dall’amico esecutore testamentario Peacock. La perseguitava.

Quando uscì nel 1824 una prima edizione delle poesie di Shelley presso le edizioni degli amici Hunts che ebbe subito grande eco, con amaro stupore di Mary gli editori furono costretti a ritirare le copie in circolazione a causa della reazione furibonda del baronetto, che minacciava di sospendere l’erogazione della rendita per Percy Florence.

Nella solitudine e nella disperazione Mary scrive L’Ultimo Uomo, The Last Man, un romanzo apocalittico, lunghissima descrizione della fine dell’umanità ad opera della peste che si diffonderà dal 2073 al 2100, secondo quanto profetizzato e scritto sulle foglie dalla Sibilla nella famosa grotta vicino a Napoli. Nella visione finale Lionel, il narratore, che è poi Mary, figura mutante, quasi androgina, affronta l’onda dell’Oceano con i suoi libri più belli, Omero e il suo pianto sulla guerra, lo Shakespeare de La Tempesta con il suo sogno di un mondo felice, e si lascia portare via

Nel settembre del 1826 muore Charles, il figlio di Percy e Harriet e Percy Florence eredita il titolo di baronetto. Prefazione e note di Mary Shelley alle poesie di Percy Bysshe Shelley.

Prefazione e note di Mary Shelley alle poesie di Percy Bysshe Shelley

Inaspettatamente, nel ‘37, l’avvocato di Sir Timothy la informava, con cautela, che il vecchio baronetto avrebbe accondisceso alla pubblicazione, con note da lei redatte, delle opere di Shelley, purché (e il purché era una minaccia che sapeva di poter colpire a fondo), purché non si parlasse degli episodi che avrebbero turbato la moralità pubblica e la sensibilità di Sir Timothy. Il lavoro di Mary diventò allora febbrile. Nei momenti di stasi la prendeva l’angoscia. “Mi ammalerò – scriveva nel diario l’8 febbraio 1839 – sono lacerata dal ricordo”. Ma poi, quando si sedeva a scrivere, la forza della sua determinazione metteva ordine, portava luce, creava una storia, costruiva un monumento. Le parole uscivano dalla mano che le tracciava lungo un percorso preciso, come se tutto fosse già stato determinato da tempo. Così fluiva il primo periodo, coincidendo quasi con il suo respiro: “Per lungo tempo una serie di ostacoli mi hanno impedito di presentare al pubblico un’edizione soddisfacente delle poesie di Shelley. Ora che tali ostacoli sono stati felicemente rimossi, mi affretto ad assolvere a un importante dovere – quello di offrire al mondo la produzione di un genio sublime, nella forma più corretta possibile, e nel contempo di spiegare come tale produzione sia sgorgata, fervida e vivente, dal suo cuore e dal suo cervello”.

Pubblica presso Moxon, Prefazione e note di Mary Shelley alle poesie di Percy Bysshe Shelley, opera che rimane tuttora fondamentale per lo studio delle opere di Shelley e in cui vengono anche ricomposti versi quasi illeggibili scritti su foglietti di carta spesso bagnati da acqua di mare o anneriti dal fumo delle candele.

Nel commento Mary ricrea la figura di Shelley come angelo dell’umanità. Mito che sarà poi accolto e ripreso in Inghilterra, Italia e in Europa.

Nel 1840 pubblica, sempre presso Moxon, Essays, Letters from Abroad, Translations and Fragments by Percy Bysshe Shelley.

Nel 1840 Sir Timothy regala inaspettatamente a Percy Florence un viaggio in Italia: e lui vi si reca insieme a Mary e ad alcuni amici. Per lei è una rinascita: vive questo viaggio, che ripeterà nel 42 e nel 43, come una riconciliazione con la gioia e la vita in una dimensione interiore di spiritualità nuova anche per lei. Racconterà del suo incanto nel rivedere i luoghi visitati e amati con Shelley in Passeggiate in Germania e Italia, Rambles in Germany and Italy, edito da Moxon nel 1844 .

Nello stesso anno muore Sir Timothy e Percy Florence ne eredita titolo e sostanze permettendo così anche a Mary di non avere più problemi economici.

Nel 1849 Percy Florence sposa una ricca vedova, Lady Jane Saint John, e acquista una proprietà, Boscombe Mannor, vicino a Bournemout. La nuora ha per Mary una devozione e un affetto, quasi una venerazione, tali da indurla a vivere con loro. Mary trascorre così nella grande tenuta gli ultimi periodi della vita, purtroppo funestati da dolori soprattutto alla testa, forse per un cancro.

Qui muore il I° febbraio 1851 a 53 anni.

Viene sepolta, insieme al cuore di Shelley, a Saint Peter’s Church dove Lady Jane trasporta personalmente, sulla sua carrozza, le bare di Mary W. e di Godwin dopo la demolizione della chiesa di Saint Pancras.

Memorie e Monumenti

Nel 1854 Lady Jane Incarica Hogg di scrivere la biografia ufficiale di Shelley ma dopo i due primi volumi gli sottrae l’incarico e scrive lei stessa un Shelley Memorial, fatta di lettere e prose.

Nel 1847 era uscita la Vita di Shelley, Life of Percy Shelley, di Thomas Medwin; nel 1858 escono i Ricordi di Shelley e Byron, Recollections of Shelley and Byron, di Trelawny.

Nel 1854 Percy Florence e Lady Jane commissionano allo scultore Henry Weekes una statua in marmo che commemori la morte di Shelley: il gruppo marmoreo, connotato da reminiscenze michelangiolesche, era destinato a Saint Peter’s Church in Bournemouth, ma la chiesa lo rifiuta, così che viene trasportato a Chistchurch Priory, vicino a Boscombe Mannor, dove Percy Florence allestisce un teatro, scrive testi e scenografie, anche su Villa Magni e i suoi fantasmi.

Nel 1886 viene fondata la Shelley Society che mette in scena I Cenci, Hellas e effettua studi e pubblicazioni.

Nel 1889 muore Percy Florence.

Nel 1893 si inaugura a Oxford lo Shelley Memorial, commissionato da Lady Jane all’architetto Basil Champneys e allo scultore Eduard Oslow Ford, in cui il poeta, un giorno cacciato dall’Università, viene ora pianto, in tutta la sua bellezza, dalla Poesia e da due leoni alati scolpiti in bronzo e posti a sostegno della statua, che raffigura, in un marmo bianco, il corpo riverso del giovane. Nel basamento sono incisi due versi da Adonais:

In darkness and in light
He is made one with nature.
Nel buio e nella luce
Lui è tutt’uno con la natura.

Lady Jane ne offre una copia in bronzo al Comune di Viareggio che la rifiuta, così che lei si limiterà a pagare solo la ringhiera di ferro intorno al monumento che i viareggini stanno preparando. E dona alla Bodleian Library di Oxford materiali. Lettere, diari, manoscritti di Mary e Percy, e anche di Godwin, che sono ora a disposizione di studio.

Il monumento di Viareggio

A Viareggio, dopo l’edizione degli scritti di Mary che proponevano Shelley come un angelo benefattore e perseguitato, divampò la leggenda del poeta – profeta dei poveri e degli sfruttati.

Gli operai, i cavatori di marmo delle Apuane, i proletari in genere; i socialisti e gli anarchici; cui si sommarono poeti, intellettuali e artisti, tra cui Carducci, Ceccardo, D’Annunzio, Ada Negri, per ricordarne solo alcuni, ne fecero, ciascuno a modo suo, un eroe.

“Percy Shelley ha nella nostra immaginazione le sembianze di un semidio. Egli è per noi il poeta dei poeti com’è il cuore dei cuori…Come Gesù …amò gli uomini di un amore eroico…Egli è veramente il poeta della universale bontà, della universale pietà, del perdono e della pace” scriveva D’Annunzio su “Il Mattino” di Napoli il 4 agosto 1892 .

Shelley divenne, per più di cinquant’anni, una leggenda, ma anche una superstizione: si pensava che dal rogo avesse tratto nuova vita.

Nella città, che conosceva un momento di grande crescita economica, ma anche di lotte proletarie per il pane, sorgeva un comitato per erigere un monumento a Shelley, tra adesioni e polemiche roventi, perché era chiaro che si stava costruendo un monumento contro lo stato e contro la chiesa. Come quello a Giorbano Bruno, voluto dal Grande Oriente d’Italia a Campo dei Fiori a Roma nel 1889, nel pieno delle polemiche anticlericali scatenate dalle encicliche di Papa Leone XIII contro socialismo, anarchia e massoneria.

Fu creato un comitato, su incitamento soprattutto di Lorenzo Viani, per erigere il monumento a Shelley: presidente Cesare Riccioni, banchiere e massone, sindaco della città; presidente onorario il deputato, già garibaldino e rappresentante della sinistra più estrema, Felice Cavallotti, e membri tutti gli intellettuali e gli artisti dell’area radicale, anarchica e socialista. Ci fu anche un comitato femminile che faceva capo alla Principessa di Capua, mentre Salome Kruceniski, celebre soprano ucraina, interprete della Butterfly di Puccini, moglie di Riccioni, raccoglieva gli articoli di stampa sull’avvenimento. La stampa cattolica si scatenava in invettive contro Shelley “dannato da Dio” e il suo “satanico monumento”.

Si cercò il luogo più vicino al punto della costa in cui era stato ritrovato il corpo: si scelse la piazza costruita di fronte alla Villa di Paolina Bonaparte che una volta era prospiciente al mare. Oggi la piazza si apre sulla via Foscolo che non è neppure la passeggiata a mare, ma la sua parallela verso l’interno; nel 1822 era la linea di costa. Nel 1894, il 30 settembre, a Viareggio, veniva scoperto il monumento, opera dello scultore Urbano Lucchesi, che proveniva da una poverissima famiglia di operai: il busto di Shelley era scolpito nel marmo e aveva le spalle coperte da un manto da cui spuntava una penna d’oca.

Il viso giovane e delicato fissava però acutamente il mare. Sul basamento, dono del sindaco, tra rami di quercia e alloro, era effigiato un libro e incisa l’epigrafe scritta da Giovanni Bovio, poeta, filosofo, drammaturgo e politico radicale:

MDCCCXIV
A P. B. SHELLEY
Cuor dei cuori
Annegato in questo mare
Arso in questo lido
Lungo il quale meditava al Liberato
Una pagina postrema
in cui ogni generazione avrebbe segnato
La lotta le lacrime
la redenzione
Sua.

Erano presenti delegazioni un po’ da tutta Europa e il colonnello S. Leigh Hunt per la famiglia Shelley, il sindaco Ferdinando Nelli, la giunta e la banda comunale: totalmente assenti le autorità governative provinciali e militari. Lo studio fotografico Magrini diffondeva un volantino ricordo, mentre il poeta Ceccardo piangeva in mezzo alla commozione generale. Lorenzo Viani, che avrebbe poi scritto su Shelley e disegnato un ritratto, dirà che quel giorno era stato il suo battesimo.

Durante tutta la cerimonia, le campane delle chiese suonarono a morto, mentre i cattolici, rinchiusi all’interno. pregarono fino a sera.

Il monumento divenne un punto di riferimento per le manifestazioni operaie. Persino un’osteria popolare, in via di Mezzo, attuale via Vittorio Veneto, accanto alla macelleria di Masticabombe, diede l’aulico nome ‘Il Prometeo’, “taverna-ricettacolo di tutti i trasandati, di tutti gli audaci, di tutti i pazzi, dei morsicati dall’inquietudine, degli arsi dal delirio. Le lettere nere, cubitali, drammatiche, scritte sopra un tavolone, ‘Prometeo’, erano come la calamita per tutta la marmaglia della strada” scriveva Lorenzo Viani ne Gli Ubriachi.

Durante la seconda guerra mondiale i tedeschi, cui la figura di Shelley era invisa, ne ordinarono la distruzione. La salvò il capo operaio del comune, Vetulio Paolini, che con l’antica saggezza dei deboli di fronte ai prepotenti, si mostrò entusiasta di obbedire e nascose invece il bust, che il 17 settembre 1944, venne nuovamente posto sul suo basamento con una festosa cerimonia.

Busto che fu tanto amato da essere oggetto, più che di pellegrinaggi, di vere e proprie scorribande di operai e cavatori inseguiti dalla polizia durante le lotte per il pane alla fine dell’ottocento e nei primi decenni del novecento, e, oggi, da turbe di artisti che vi si radunano intorno per eseguire performances, letture, spettacoli.